Il Partito Comunista d’Italia (marxista-leninista)

Nell’aprile del ’65, dopo la scissione del gruppo di Duse, “Nuova Unità” riprese le pubblicazioni sotto la direzione di Balestri, Dinucci, Geymonat, Misefari e Pesce. Quasi contemporaneamente gli stessi protagonisti promossero l’organizzazione del Movimento marxista-leninista italiano, assumendo una piattaforma politica ispirata esplicitamente alle posizioni cinesi. Se inizialmente il Movimento si poneva ancora in una chiara posizione entrista nei confronti del Pci – erano presenti nel comitato nazionale provvisorio del Movimento ben sedici membri ancora militanti del Pci- nei mesi seguenti verificò che nonostante l’estromissione di Krusciov il Pcus non aveva cambiato linea politica e nella stessa direzione aveva proseguito il PCI del dopo-Togliatti. I bombardamenti nordamericani sul Vietnam e il lancio della Rivoluzione Culturale cinese furono gli eventi che fecero cambiare strategia al nascente Movimento marxista-leninista italiano. I fatti cinesi, e le accuse al revisionismo di Liu Shao-chi, al quale veniva contrapposto da parte di Mao un percorso realmente rivoluzionario, convinsero il gruppo di “Nuova Unità” a delineare, nel marzo ’66, l’itinerario per la creazione del nuovo partito; la pubblicazione dei “sedici punti” da parte del CC del PCC e l’avvento delle Guardie Rosse eliminarono ogni residua ambiguità nei confronti del Pci.

Nell’aprile del 1965, con il primo numero di “Nuova Unità”, II serie, vennero definitivamente “regolati i conti” con i militanti de “Il Comunista”, indicando i motivi che avevano generato la divisione.

La redazione sostenne che vi erano delle “chiusure settarie, pavide e inconcludenti che sono emerse in tutta evidenza rilevandosi per quello che sempre sono state nella storia del movimento operaio internazionale: rivoluzionarismo a parole, ma chiusura sul piano politico operativo, inconcludenza sul piano della costruzione dell’organizzazione politica rivoluzionaria, spirito di setta e discrirninazione verso il contributo che vecchi e sinceri compagni possono portare allo sviluppo della lotta”.

Ciò che oggi emerge analizzando i dissidi di ieri tra marxisti-leninisti è il non cedere a compromessi, l’orgoglio della scissione appena avvenuta, motivata con il fatto che gli scissionisti erano dei trotzkisti, frazionisti, revisionisti e quindi traditori della causa rivoluzionaria sostenuta dal movimento marxista-leninista. Il Congresso di fondazione del Partito Co-munista d’Italia (marxista-leninista) si svolse dal 14 al 16 ottobre al teatro Goldoni di Livorno, nello stesso luogo in cui era stato fondato nel 1921 il Partito Comunista d’Italia di Bordiga. Questo gesto voleva assumere il significato di “rialzare la bandiera del socialismo” gettata a terra dai “capi traditori” del Pci; un’operazione che appariva anche sostenuta -sia moralmente che con aiuti materiali – da un grande paese socialista quale era la Cina. Il gruppo dirigente del PCD’I assumeva quindi un “compito storico”: quello di ricostruire una “nuova e consapevole avanguardia, mirante a riorganizzare il proletariato e le masse popolari” attraverso la fondazione del vero partito rivoluzionario.

Il congresso di Livorno elesse come segretario Fosco Dinucci e decise di strutturare il PCD’I come un “piccolo Pci”, con cellule, federazioni e un ferreo centralismo democratico. Ma rispetto al partito di Togliatti venivano richiesti ai militanti una dedizione assoluta e finanziamenti proporzionali al proprio reddito. Veniva inoltre regolato rigorosamente l’ingresso nel partito per i nuovi adepti attraverso una prima candidatura e un’eventuale successiva iscrizione; il tutto in nome di una politica ispirata a Stalin e impersonificata dalle azioni compiute da Mao.

Nell’intento dei dirigenti del PCD’I il nuovo partito comunista nacque quindi come alternativa al Pci, oramai inglobato nel sistema parlamentar-democratico. Il PCD’ I si dichiarò contrario alla democrazia parlamentare, sostenendo che l’unica soluzione era la rivoluzione che avrebbe instaura-to la dittatura del proletariato, la sola forma di governo con la quale combattere i controrivoluzionari e instaurare il socialismo. Il 1967 fu l’anno di maggiore espansione del PCD’I; gran parte dì coloro che vedevano nel Pcus, e di conseguenza nel Pci, dei partiti riformisti, ritenne quasi obbligatorio rivolgersi al PCD’I .

Il riconoscimento del PCD’I da parte del Partito Comunista Cinese e di quello d’Albania ebbe un effetto dì attrazione nei confronti dei molti studenti che vedevano nella Cina della Rivoluzione Culturale l’esempio della consacrazione del comunismo. Questo incontro tra due generazioni di militanti rivoluzionari, seppur in un primo momento dimostratosi un grande successo, fu l’elemento deflagrante per un partito in fase ascendente.

Emergevano al suo interno grandi differenze culturali – con scontri molto spesso inconsapevoli perché non riconosciuti come tali – che naturalmente si ripercuotevano sull’interpretazione da attribuire alla Rivoluzione Culturale, ai quali si aggiungevano quelle difficoltà generate dallo stesso maoismo che, pur ponendosi in rottura con la tradizione marxista-leninista, continuava a utilizzare la stessa terminologia, ostacolandone la comprensione.

Nell’intento dei dirigenti del PCD’I il nuovo partito comunista nacque quindi come alternativa al Pci, oramai inglobato nel sistema parlamentar-democratico. Il PCD’I si dichiarò contrario alla democrazia parlamentare, sostenendo che l’unica soluzione era la rivoluzione che avrebbe instaura-to la dittatura del proletariato, la sola forma di governo con la quale com-battere i controrivoluzionari e instaurare il socialismo. Il 1967 fu l’anno di maggiore espansione del PCD’I; gran parte dì coloro che vedevano nel Pcus, e di conseguenza nel Pci, dei partiti riformisti, ritenne quasi obbligatorio rivolgersi al PCD’I.

Il riconoscimento del PCD’I da parte del Partito Comunista Cinese e di quello d’Albania
[nell’ agosto del 1968 il Pcc riconobbe ufficialmente il PCD’I. In quei giorni Pesce e Dino Dini si recarono in delegazione a Pechino e incontrarono il Presidente Mao e impor-tanti dirigenti cinesi come Chou En-Lai, Chen Po-ta Kang Sheng, Chiang Ching e Yao Wen-yuan. L’incontro fu immortalato in una foto in cui si vedevano i due rappresentanti italiani assieme ai dirigenti cinesi. Cfr. Intervista ad Osvaldo Pesce.] ebbe un effetto dì attrazione nei confronti dei molti studenti che vedevano nella Cina della Rivoluzione Culturale l’esempio della consacrazione del comunismo. Questo incontro tra due generazioni di militanti rivoluzionari, seppur in un primo momento dimostratosi un grande successo, fu l’elemento deflagrante per un partito in fase ascendente. Emergevano al suo interno grandi differenze culturali – con scontri molto spesso inconsapevoli perché non ricono-sciuti come tali – che naturalmente si ripercuotevano sull’interpretazione da attribuire alla Rivoluzione Culturale, ai quali si aggiungevano quelle difficoltà generate dallo stesso maoismo che, pur ponendosi in rottura con la tradizione marxista-leninista, continuava a utilizzare la stessa terminologia, ostacolandone la comprensione. Per i militanti provenienti dal Pci il maoismo veniva molto spesso assunto come una semplice continuazione dello stalinismo e quindi non necessariamente visto come fonte di elaborazione. I nuovi entrati invece, avendo forgiato la loro precedente militanza nei movimenti studenteschi o all’interno di redazioni di giornali o riviste dove erano presenti militanti di diverse e numerose matrici culturali e politiche, molto spesso sollevavano critiche nei confronti dell’eccessivo dogmatismo dei compagni più anziani e verso l’operato dell’Unione Sovietica, anche quella dei periodo staliniano. Osvaldo Pesce, leader prima del PCD’I e poi della successiva “linea nera”, sostiene:

“certamente siamo stati un po’ dogmatici e posso riconoscere di esserlo stato anche personalmente, però era giusta la lotta contro il tradimento del Pci o no? Era giusta la lotta contro il tradimento dell’Unione Sovieti-ca o no? Questo era l’elemento centrale […] farla finita con l’imperiali-smo e con il capitalismo, avere un mondo nuovo, diverso, dove un essere sia uguale a tutti gli altri”.

Anche Angiolo Gracci – che dopo il ’68 fu il leader della “linea rossa”, considerata quella meno dogmatica e più aperta alle istanze avanzate dai più giovani – sostiene che “l’ iperintellettualismo, le velleità leaderistiche concorrenziali portarono l’area marxista-leninista a spaccarsi su questioni teoriche e ideologiche “di principio”, ciascuno proponendosi come migliore interprete del “giusto pensiero” di Mao Tse-tung, di Lenin, di Stalin e così via”. Peruzzi, ricordando l’ingresso della redazione di “Lavoro politico” all’interno del PCD’I, sostiene:

“Ma in quel partito di classe operaia ce n’era poca, di linea meno. C’erano un forte formalismo e una liturgia stalinista, specie nelle sue componenti egemoni formatesi nelle scuole quadri del Pci e nell’ apparato[…] Il no-stro fu comunque uno stalinismo di riporto, diversamente da quello di al-tri m-l che venivano da una lunga militanza nel Pci [che] divennero maoisti solo perché Mao era contro l’Unione Sovietica di Krusciov e rivalutava Stalin”.Ma la questione principale che divideva i militanti delle due generazioni era quella relativa al ruolo di Stalin. Per Pesce “Mao non era conosciuto come noi lo vediamo oggi: Stalin primeggiava nella realtà agli inizi degli anni ’60 […] Dopo la grande Rivoluzione Culturale proletaria cinese si comincia a comprendere Mao, a conoscerne il pensiero e Mao assume un ruolo diverso nel contesto del movimento comunista internazionale. […] d’altra parte Mao non era antistalinista […].Mao era abituato a fare il bilancio delle esperienze e a guardare la realtà delle cose. Sulla base di questo bilancio prendeva posizione. Sicuramente si pone in continuità con il movimento operaio internazionale, e di Stalin. Ma questo non significa che ritenesse l’operato di Stalin sempre giusto”.

Le differenze emerse successivamente tra le due linee si rintracciano anche nelle posizioni espresse da Gracci e Peruzzi, appartenenti entrambi alla “linea rossa”. Per l’ex comandante partigiano “Quella maoista è stata, soprattutto negli anni ’60-’70, l’interpretazione più correttamente critica e autocritica che il movimento comunista ha dato di se stesso”, men-tre per l’ex direttore di “Lavoro politico” – che rappresentava la compo-nente dei giovani, quella parzialmente critica verso le posizioni di Stalin- la componente proveniente dal Pci era minoritaria e quindi “la componente maggioritaria è data dai giovani, i quali sono attratti dall’altro Mao, cioè dal Mao della Rivoluzione Culturale, dal Mao che dice “spara-te sul quartier generale”. Ma secondo Peruzzi la questione non termina qui, la Rivoluzione Culturale rappresenta un elemento di rottura:

“Mao dice “per continuare nella tradizione comunista e fare il comunismo bisogna rompere con i quadri dirigenti, bisogna rompere con la struttura di partito, ribellarsi è giusto”, cioè bisogna ribellarsi alle tendenze capitalistiche che si riproducono anche in seno alla società socialista e occor-re fare una Rivoluzione Culturale, delle idee, delle coscienze”.

Se sull’interpretazione del maoismo e del ruolo di Stalin le posizioni erano diverse, il giudizio che veniva dato sull’idea di democrazia portata da Mao era molto simile, sebbene alcuni interlocutori evidenzino l’esistenza di una grossa diversità tra democrazia borghese e democrazia pro-letaria. Se Manlio Dinucci – militante del PCD’I ma soprattutto attento osservatore della Rivoluzione Culturale direttamente dalla Cina – afferma che “nella sostanza la Rivoluzione Culturale era un movimento che cercava di trasferire potere reale a livello di massa , Gracci conferma che “La Rivoluzione Culturale va interpretata come un invito ad avanzare verso una democrazia diretta e a praticarla a livello di massa, a instaurare rapporti effettivi di democrazia in cui, attraverso la pratica della critica e dell’autocritica, quei rapporti diventino sempre più reali”. Pesce puntualizza che la “democrazia in senso di pluripartitismo, o delle forme istituzionali della democrazia borghese, credo che a Mao non interessasse”.

Per quanto concerne la questione economica, gli aspetti più rilevanti emergevano dai giovani, da coloro che provenendo dal movimento del ’68 si ponevano anche la questione del tipo di economia, di come produrre e cosa produrre. Peruzzi ripropone infatti la questione della non neutralità della scienza, che viene vista come parallela, se non come una conseguenza del “prima rosso che esperto” di provenienza maoista. Per gli altri, la questione appariva secondaria perché l’aspetto fondamentale era conservare una prospettiva socialista, finalizzata al raggiungimento del comunismo: una strada che era stata indicata da Stalin e che apparentemente non presentava nessun errore o guasto macroscopico. Infine, per quanto riguardava il rapporto tra Mao e gli altri miti di quel periodo, la valutazione era sufficientemente unanime tra gli m-l. Comunque fosse interpretato, Mao era considerato superiore a qualunque altro leader mondiale. Uno dei pochi aspetti in comune che poteva esistere tra Mao, Guevara, Ho Chi-minh, le Black Panthers e don Milani era la lotta contro l’imperialismo. Ma per gran parte dei marxisti-leninisti appartenenti al PCD’I, Mao non poteva essere paragonato a personaggi come Ho Chi-minh o Che Guevara, che, secondo Pesce, “non tira fuori altro che guerra per bande; il comunismo di Guevara non era comunismo, era guevarismo, una cosa che si avvicina più al trotzkismo. […] Era un elemento estraneo a quella terra”; per Peruzzi invece
“Gli m-l criticavano Guevara per questo aspetto del fuoco guerrigliero, per lo spontaneismo e per il fatto che sul piano internazionale voleva l’unità del campo socialista, anche con l’URSS , riconoscendole una natura socialista che non aveva. Quanto a Malcom X e Ho Chi-minh essi non venivano criticati ma visti non come dei leader teorici complessivi ma come esempi di capi politici rivoluzionari”.

Il PCD’I delle due linee

“Nel novembre 1968, a Rovello Porro si svolse un congresso tempe-stoso e anche un po’ romantico in una grande cascina a nord di Milano, nella brughiera immersa nel freddo e nella nebbia. Eravamo oltre cento compagni di tutta Italia. C’era un fervore straordinario”. Questo è il ricordo appassionato di un ancora battagliero Angiolo Gracci, che ripercorre la storia della rottura del PCD’I e la nascita delle due linee, quella “rossa” e quella “nera”. Le motivazioni che condussero allo smembramento del più importante partito marxista leninista italiano hanno origini antiche. Se anche in questa situazione si ripresentò la questione dell’organizzazione fu soprattutto il rapporto con le masse che catalizzò l’attenzione dei marxisti-leninisti appartenenti al PCD’I. Questo dissidio trovava la sua origine nell’adesione al partito da parte di molti militanti provenienti dai movimenti studenteschi o comunque portatori di un’analisi politica meno dogmatica rispetto a coloro che provenivano dal Pci. Il congresso straordinario, promosso da quella che si autodefinirà “linea rossa”, ebbe come tema principale proprio la questione del rapporto del partito con le masse e vide tra i suoi promotori Peruzzi con il gruppo di “Lavoro Politico”, l’ex comandante partigiano Gracci e Dino Dini, colui che insieme a Pesce aveva incontrato Mao pochi mesi prima.

L’accusa che veniva rivolta dalla “linea rossa” alla “linea nera” era quella di essere un piccolo nucleo di controrivoluzionari i quali, pur facendo parte del gruppo dirigente, impedivano la costruzione del partito di massa, imponevano il servilismo dei militanti rendendo il partito settario e clandestino; il tutto giustificato da una fraseologia di sinistra che in realtà – secondo gli aderenti alla “linea rossa” – rappresentava la linea di destra, opportunista e revisionista. Lo stesso Gracci afferma:

“C’era un modo ristretto, miope, egocentrico e sospettoso di gestire la direzione del partito che confliggeva con l’esigenza urgente di apertura per sviluppare una linea di massa autentica, alternativa, a chi pensava di rafforzare l’identità del partito attraverso una politica di legittimazione verticistica attestata dalle foto realizzate a fianco di Enver Hoxha o di Mao Tse-tung”.

Quindi la “linea rossa” – rispetto alla “linea nera” di Pesce e Fosco Dinucci – sosteneva di essere il gruppo che veramente rappresentava in Italia il pensiero di Mao. Gracci, Peruzzi e Dini ritenevano che la base dovesse interpretare creativamente le direttive provenienti dal gruppo dirigente, indicando il vero maoista italiano in colui che assumeva il pen-siero di Mao in maniera creativa: questa tesi derivava dalla linea politica sintetizzata da Mao che individuava l’esistenza della lotta di classe anche all’interno dell’organizzazione rivoluzionaria. In sintesi questa posizione meno centralista era assunta dalla “linea rossa” che rifletteva anche in parte le innovazioni “movimentiste” derivate dai militanti provenienti da “Lavoro politico” e più in generale dai movimenti studenteschi. Per co-loro che venivano etichettati come appartenenti alla “linea nera” la realtà era decisamente diversa. Secondo Manlio Dinucci,
“fu quasi una trasposizione di una mini-Rivoluzione Culturale in un mini-partito, una cosa veramente da ridere, ma allora fu interpretata seriamente, per questioni anche di persone che si volevano mettere in evidenza. Le vere motivazioni di questa rottura penso che fossero inerenti a questioni di rivalità interna. Le altre ragioni penso che fossero di facciata”.

Per Pesce, oltre a questo elemento personalistico, la questione verteva principalmente sul revisionismo che implicitamente attribuisce alla “linea rossa”: “erano anni in cui c’era molta anarchia: per esempio ricordo che in Italia si negavano anche le strutture del partito, contraddicendo quanto affermava Mao con la frase ‘non dobbiamo negare tutto'”. Così il leader della “linea nera”, anche se con una particolare motivazione, giunge a confermare le accuse che gli venivano poste dal gruppo di Gracci e Peruzzi; infatti per Pesce la posizione assunta dalla “linea rossa” significava affermare: “c’è un esercito organizzato; contro quell’esercito ognuno agisce autonomamente senza creare un’organizzazione”.

Su “Nuova Unità”, che nel frattempo era rimasta sotto l’influenza della “linea nera”, vennero pubblicati molti attacchi agli aderenti alla “li-nea rossa”, definiti barboni, trotzkisti, para-trotzkisti, anarchici, sponta-neisti e revisionisti camuffati. Peruzzi fu uno dei dirigenti più colpiti da-gli insulti, che definivano le sue idee “pruriti “rivoluzionari” di un sacrestano cresciuto nelle associazioni cattoliche. Un attacco finalizzato a personalizzare le accuse contro quei “germi movimentisti” che avrebbero condotto il PCD’I alla scissione. In realtà Peruzzi e il suo gruppo non rappresentavano, almeno parzialmente, altro che le nuove esigenze e le modalità di analisi emerse durante quel grande movimento di operai e studenti che prese il nome di Sessantotto. Non era Peruzzi ad avere in-ventato nuovi modi di concepire la rivoluzione o il socialismo: questi na-scevano spontaneamente sia in Italia che in molti altri paesi del mondo, compresa la Cina.

In seguito alla scissione, il 10 dicembre uscirono due “Nuova Unità”, che si presentarono entrambe come organi del PCD’I; dopo pochi mesi la “linea rossa” decise di pubblicare la rivista “Il Partito”. Inizialmente si avvicinarono alla “linea rossa” molti militanti marxisti-leninisti, perché la ritenevano più aperta alle nuove istanze, ma in seguito, come ricorda Peruzzi, emerse che “le divergenze con la “linea nera” erano più che altro nelle parole”. Nonostante tutto i rappresentanti della “linea nera” continuarono a essere invitati in Cina, anche se il Pcc, coerentemente con la linea dei Cento Fiori, non scelse tra i partiti marxisti-leninisti italiani: dovevano essere gli stessi militanti a deciderne le migliori fortune. Questa fu una posizione che permise alle molte organizzazioni italiane, che sostenevano di ispirarsi al pensiero di Mao, di continuare a scambiarsi accuse relative alla migliore applicazione delle idee maoiste, impedendo quindi una qualsiasi unificazione successiva.

Il 1969 segnò l’inizio del declino delle organizzazioni marxiste-leniniste. Un modo diverso di concepire il partito e lo stesso socialismo stava prendendo il sopravvento tra i militanti alla sinistra del Pci. In quello stesso anno la “linea rossa” sancì sia l’espulsione del gruppo che faceva riferimento a Peruzzi – accusato di “avventurismo e frazionismo organizzato” – che tornò ad essere autonomo, sia l’ingresso di alcuni suoi militanti nell’ Uci di Aldo Brandirali. Anche la “linea nera” fu interessata da alcune scissioni. Prima nacque l’Organizzazione dei Comunisti Italiani m-l di Castellani; seguì il PCD’I m-l “Lotta di lunga durata” di Hermann, l’Organizzazione dei Comunisti m-l d’Italia di Pesce, l’Organizzazione Comunista Bolscevica Italiana m-l di Scuderi più numerose altre scissioni locali. L’influenza del pensiero di Mao rimase peculiarità solo di alcuni di questi gruppi. Per altri, come per i resti del PCD’I “linea nera”, nel ’76 ci fu la completa sconfessione del maoismo e la dichiarata condanna di Mao e della stessa Rivoluzione Culturale.