Mosca 1937

Queste pagine dovrebbero veramente essere intitolate: Mosca, gennaio 1937. Perché a Mosca la vita scorre cosi rapidamente, che molte cose affermate un giorno, dopo pochi mesi non sono piu’ vere.

Ho visitato la citta’ con persone che la conoscevano bene; ma, essendone stati assenti per sei mesi, scuotevano il capo dicendo:” È questa la nostra città? ” Ciò nonostante scrivo: Mosca 1937. Mi prendo questa libertà, non avendo intenzione di tracciare un quadro esatto ed obiettivo; una simile impresa sarebbe assurda dopo un soggiorno di sole dieci settimane. Voglio piuttosto annotare semplicemente le mie impressioni personali per i miei amici, che chiedono avidamente:

” Che cosa ne pensi di Mosca? Che cosa vi hai visto?” Siccome devo emettere dei giudizi della cui soggettività mi rendo perfettamente conto, racconterò subito con quali speranze e timori mi recai nell’Unione Sovietica, affinché ognuno sappia in quale misura le mie sensazioni furono influenzate da sentimenti e pregiudizi.

Partii in veste di simpatizzante. Sì, simpatizzavo, a priori, con l’esperimento di costruire un Paese gigantesco unicamente sul raziocinio ed andai a Mosca con la speranza che l’esperimento fosse riuscito.

Per quanto io non desideri che vengano eliminati sentimenti, fatti logici ed illogici dalla vita privata del singolo, per quanto nuda trovi una vita basata sul puro raziocinio, sono tuttavia profondamente convinto che le istituzioni della società, se vogliono fiorire devono essere basate sul giudizio e sulla ragione.

Abbiamo assistito sgomenti a quanto è accaduto nell’Europa centrale, dove gli Stati e le leggi erano basati su sentimenti e pregiudizi e non sulla ragione. Ho sempre considerato la storia mondiale come una grande e continua lotta conbattuta da una minoranza intelligente contro una maggioranza di sciocchi. In questa lotta mi sono posto dalla parte della ragione e per questo simpatizzavo a priori con il tentativo gigantesco intrapreso da Mosca. Ma, nonostante la mia simpatia, restavo tuttavia dubbioso. Il Socialismo pratico poteva funzionare soltanto mediante la dittatura di una classe e L’Unione Sovietica era, quindi, una dittatura. Ora, io sono uno scrittore e per di più scrittore per vocazione, cioe’ sento l’assoluta necessità di esprimere liberamente di ciò che osservo, penso, vedo, e vivo senza riguardo del singolo, senza riguardo di una classe, di un partito o di una ideologia e perciò diffidavo anche di Mosca. La Unione Sovietica aveva bensì emanato una Costituzione democratica e liberale; ma persone degne di fede mi avevano riferito che in pratica questa libertà era molto limitata ed in questo mio dubbio ero stato rafforzato da un breve libro dello scrittore André Gide, apparso poco prima della mia partenza. Arrivai pertanto alla frontiera della Unione Sovietica, pieno di curiosità, dubbio e simpatia.

La cordiale accoglienza ricevuta a Mosca rafforzò ulteriormente la mia incertezza. Amici miei, persone molto intelligenti, erano stati completamente fuorviate dalle onoranze loro tributate dai fascisti tedeschi e mi domandai se anch’io mi sarei lasciato indurre a considerare cose e persone attraverso le lenti della vanità. Inoltre, mi dissi che mi sarebbe Stato certamente fatto vedere soltanto quanto era andato a buon fine e mi sarebbe quindi riuscito difficile guardare sotto la superficie ed attraverso la maschera preparata appositamente. D’altra parte, a Mosca si poteva facilmente essere indotti a giudicare erroneamente, ed in modo completamente negativo, per le molte piccole scomodità che appesantiscono la vita di tutti i giorni e distolgono l’attenzione da quello che è più importante. Mi resi rapidamente conto che il giudizio del grande scrittore André Gide era stato fuorviato da simili piccolezze. A Mosca dovetti sempre cautamente controllare le mie opinioni e rettificarle ora in un senso ed ora nell’altro, affinché il mio giudizio non fosse troppo influenzato dai piaceri e dispiaceri occasionali.

Spesso le mie osservazioni e i miei giudizi erano resi difficili dall’ingenuo orgoglio e dallo zelo dei Russi. La civiltà dell’Unione Sovietica è giovane, costruita con fatiche e privazioni di cui non esistono esempi e quando arriva a Mosca un ospite, alla cui opinione essi attribuiscono importanza, a torto od a ragione, lo assalgono subito con le domande: ” Vi piace? ” – e – ” Che cosa ne dite? “. Era, inoltre, un periodo di tempo piuttosto movimentato. I gerarchi fascisti pronunciavano minacciosi discorsi di guerra contro l’Unione Sovietica, si combatteva in Spagna ed alle frontiere della Mongolia e nella stessa Mosca ebbe luogo un processo politico, che eccitò le masse. C’erano quindi da porre molte domande ed i moscoviti non se ne lasciavano scappare l’occasione. Io sono lento nei miei giudizi, considero volentieri il pro e il contro anche per me stesso e non mi piace enunciare un giudizio, prima di averlo ben vagliato. C’erano naturalmente anche cose che non mi piacevano e, come scrittore, mi son fatto un punto d’onore di dire sempre sinceramente quello che penso, abitudine che mi ha già procurato parecchi guai. Anche in Russia, quindi, non volli tacere quando osservai delle deficienze. E non era sempre facile ad un ospite, sia pur ben visto, in quei tempi burrascosi trovare una forma appropriata e parole, non prive di tatto, ma tuttavia efficaci, per esprimere un giudizio negativo. Potei osservare con soddisfazione che non se l’ebbero a male per la mia sincerità.

I giornali pubblicavano con molta evidenza le mie dichiarazioni, anche quando non potevano tornare gradite alle autorità, come ad esempio il mio desiderio di una maggiore tolleranza in alcuni campi, o il mio stupore per il culto di Stalin, talvolta del tutto privo di gusto, od il mio postulato di veder chiariti meglio i motivi per cui nel menzionato processo politico, il secondo processo trotzkista, gli accusati avevano confessato. Anche nei colloqui privati gli uomini responsabili del governo del Paese si mostrarono sensibili alla critica e ripagarono sincerità con sincerità. Appunto per il fatto che esprimevo schiettamente le mie obbiezioni, ottenni informazioni che altrimenti non avrei ottenuto.

Ritornato in Occidente, mi posi la domanda: devo parlare di quello che ho visto nell’Unione Sovietica? Non sarebbe stato difficile, se, come altri avessi visto in Russia molte cose negative e poche positive. Si sarebbero sentite grida di giubilo. Ma io avevo osservato più luce che ombra e siccome l’Unione Sovietica non é amata, le mie parole non sarebbero state bene accolte. Ne ebbi subito la prova.

A Mosca non avevo pubblicato molti scritti sulle mie impressioni, nemmeno duecento righe, pochissimo, quindi, e non tutte favorevoli; ma anche questo poco, dato che non era puro biasimo, venne deformato. Dovevo, pertanto, parlare ancora dell’Unione Sovietica?

Stanco per le fatiche del soggiorno russo, nei primi giorni dopo il mio ritorno, mi dicevo che era mio compito creare un’opera letteraria, non di parlare, e determinai di tacere e di aspettare fino a che le mie impressioni avessero preso forma.

Ma presto non potei più far tacere la mia coscienza con questa scusa. L’Unione Sovietica è in lotta con molti nemici ed i suoi alleati la sostengono solo blandamente. L’ignoranza, la malevolenza e la malignità sono all’opera per rendere sospetto, calunniare e negare tutto quanto di fecondo avviene in Oriente. Uno scrittore, che abbia quindi visto qualche cosa di grande, non deve rifiutarsi di darne testimonianza, anche quando questo qualcosa di grande non è popolare e le sue parole a molti non suonano gradite.

La mia è dunque una testimonianza.

Lion Feuchtwanger

INDICE

Premessa.

I° – GIORNO DI LAVORO E GIORNO DI RIPOSO

II° – COLLETTIVISMO E INDIVIDUALISMO

III° – DEMOCRAZIA E DITTATURA

IV° – NAZIONALISMO E INTERNAZIONALISMO

V° – GUERRA E PACE

VI° – STALIN E TROTZKI

VII° – CHIAREZZE E OSCURITÀ DEI PROCESSI TROTZKISTI

VIII° – AMORE E ODIO

QUESTO VOLUME E STATO IMPRESSO NEL MESE

Dl SETTEMBRE DELL’ANNO MCMXLVI NELLE

OFFICINE GRAFICHE VERONESI DI UNA NOTA

CASA EDITRICE ITALIANA

LION FEUCHTWANGER

Nato a Monaco di Baviera nel 1881, Lion Feuchtwanger Tesse dal 1905 al 1910 una società letteraria sostenitrice della nuova letteratura: di quegli anni furono le sue prime opere (un romanzo e una commedia), non però molto diffuse. La fama di lui nacque e si impose nel 1926 con la pubblicazione sotto altro titolo di Suss l’Ebreo, iniziato dieci anni prima Seguono altri romanzi e alcune commedie di alterna fortuna, sino al primo volume della ” Trilogia di Giuseppe Flavio “. Storia, romanzo, biografia, invenzione si uniscono in una specie di moderna epopea: sullo sfondo della lotta fra il paganesimo del colosso romano e il monoteismo eroico della piccola Palestina, si erge la figura ambigua, ma sofferta, di Giuseppe Flavio, il suo dualismo ebraico-cristiano. Accanto ai romanzi storici, il romanzo sociale (Successo) e i romanzi delle tragedie moderne: “I fratelli Oppenheim”, gli Ebrei martoriati dai nazisti; “Simonetta”, la Francia invasa dai Tedeschi. Nel campo delle memorie si allinea questa “Mosca 1937″ scritta in polemica con un famoso libello di André Gide; alla quale seguirà, sempre per i tipi di Mondadori (editore di gran parte dell’opera di Feuchtwanger) il diario dell’internamento, “Francia amara”. Infatti Feuchtwanger, profugo dalla Germania, accolto trionfalmente a Parigi nel 1933, fu internato nel ’40 per la sua origine tedesca; sfuggito miracolosamente ai nazisti, sì rifugiò negli Stati Uniti d’America, dove vive tuttora.

A. Mondadori

I

GIORNO DI LAVORO E GIORNO DI RIPOSO

Arrivai nell’Unione Sovietica da Paesi in cui si era soliti sentire lamentele.

La popolazione non era soddisfatta né della situazione estera né di quella interna ed agognava mutamenti. Specialmente dagli Stati dittatoriali fascisti giungevano innumerevoli grida di disperazione, quantunque in quei Paesi la critica venisse severamente punita come tradimento: l’ira e la disperazione vincevano però il timore della prigione e dei campi di concentramento. Stupito e dapprima scettico, osservai che nell’Unione Sovietica tutte le persone con le quali venni a contatto, anche l’interlocutore di colloqui occasionali che non potevano in nessun caso essere predisposti, facevano qualche volta la critica di particolari, ma sembravano d’accordo sull’insieme dell’ordinamento.

Su, tutta la grande città di Mosca respirava contentezza ed armonia, direi di più: felicità.

Per parecchie settimane pensai che queste affermazioni fossero il risultato della paura. Avevo qualche dubbio già per il fatto che a Mosca manca ancora molto di quanto a noi occidentali sembra indispensabile. La vita non vi è ancora affatto così facile, come le autorità desiderano.

Gli anni di fame sono superati, questo è vero. In molte botteghe si possono comperare generi alimentari in grande varietà ed a prezzi accessibili al cittadino medio dell’Unione, cioè all’operaio ed al contadino. Particolarmente economici ed insolitamente buoni sono i generi conservati di ogni specie.

Le statistiche dimostrano che ogni membro della popolazione dispone di generi alimentari migliori ed in maggiore quantità della popolazione tedesca ed italiana e, per quanto sia possibile giudicare durante un breve viaggio, le statistiche non mentono. Mi ha stupito il lusso e l’abbondanza con cui anche persone di reddito modesto trattano un ospite inatteso. La cucinatura di commestibili ottimi e ricchi è spesso trascurata e compiuta senza arte. Ma il moscovita fa onore ai cibi. Non è da molto che la sua tavola è così ben provvista. In due anni, dal 1934 al 1936, il consumo di generi alimentari a Mosca è aumentato del 28,8 % per abitante, ed esaminando le statistiche del periodo anteriore alla guerra, dal 1913 al 1937, il consumo di carne e grassi aumentò del 95 %, di zucchero del 250 %, dì pane del 150%, di patate del 65 % per abitante. Nessuna meraviglia, quindi, se dopo tanti anni di fame e privazione l’alimentazione sembri ideale al moscovita.

Anche il miglioramento del vestiario stupisce colui che conosce la Mosca dei tempi passati. Soltanto nel 1936 le spese per l’abbigliamento sono aumentate del 50,8 %. Ma a chi giunge per la prima volta a Mosca, esso sembra ancora parecchio insufficiente. Certo, si può avere il necessario, come, ad esempio, pellicce di pecora o calzature di gomma, a prezzi straordinariamente bassi, ma il resto è molto caro. Ma quello che manca completamente è l’eleganza. Chi volesse, uomo o donna, essere vestito bene e con gusto, dovrebbe faticare molto e non raggiungerebbe mai completamente lo scopo. Una volta invitai alcune persone, fra le quali si trovava un attrice insolitamente ben vestita. Fu lodato il suo vestito. ” Me lo sono fatto prestare dal teatro ” confessò.

Giungendo dall’Occidente, si nota anche la mancanza di altri oggetti di uso comune. C’è poca scelta, ad esempio, nei tipi di carta e nei negozi si può ottenerla soltanto in piccole quantità; mancano anche i medicinali ed i cosmetici. Frequentando i negozi, si notano molti oggetti privi di gusto. Molte cose, certamente, rallegrano per la forma graziosa, l’utilità ed il prezzo basso, quali lampade per scrivania, vasi di legno, apparecchi fotografici e grammofoni. Con il crescente benessere, crescono visibilmente anche le necessità, e, se negli anni duri ci si accontentava solo dell’indispensabile, ora cresce anche la domanda per il superfluo. Essa cresce in tale misura che la produzione non è in grado di soddisfarla e spesso si vedono code davanti ai negozi.

Anche altre deficienze rendono difficile la vita di tutti i giorni dei moscoviti. I mezzi pubblici di trasporto funzionano bene e l’ingenuo orgoglio dei cittadini per la loro metropolitana è giustificato; è realmente la più bella e comoda del mondo. Ma i tram sono spesso ancora sovraffollati e trovare un tassi è veramente un’impresa immane. Un mio conoscente, che abita a quaranta chilometri da Mosca, perdette il treno per l’estero perché, nonostante una ricerca durata parecchie ore, non riuscì a trovare nessun mezzo per far trasportare il bagaglio.

Anche la burocrazia ha la sua parte di colpa nel rendere difficile la vita ai moscoviti. Per affittare abitazioni, viaggiare, avere benzina e olio per l’automobile, per l’accesso a molti edifici pubblici e per molti affari particolari sono necessari certificati ed attestati. “Propusk”, cioè permesso, è una delle prime parole russe che lo straniero impara. Anche il fare una gita non è cosa facile per lo straniero. Nei dintorni di Mosca ci sono soltanto pochi alberghi e ristoranti e gli innumerevoli posti di ristoro sono accessibili esclusivamente ai membri delle organizzazioni professionali. Il ministro accreditato di uno Stato estero mi raccontò, scherzando solo a metà, con quanto desiderio, nei giorni feriali, sostava davanti alle piscine degli operai; ma non poteva entrare in nessuna. Quella però che più si fa sentire è la scarsità di abitazioni. Una gran parte della popolazione abita in piccole e povere camere, difficilmente aerabili d’inverno e si fanno code davanti ai rubinetti dell’acqua ed ai gabinetti. Importanti uomini politici, scrittori e scienziati con elevati redditi abitano in modo più primitivo di molti piccoli borghesi occidentali.

Specialmente durante le prime settimane del mio soggiorno, mi sono spesso domandato se questi inconvenienti, che si ripetono ogni giorno, non debbano raffreddare quella felicità di cui parlavo prima. Ma ciò non avviene.

I Sovietici hanno avuto lunghi anni di dure privazioni ed i tempi in cui mancava costantemente luce ed acqua e si facevano le code davanti ai negozi per pane ed aringhe, non sono ancora dimenticati. I loro piani economici si sono dimostrati esatti ed hanno eliminato queste miserie; in un futuro prossimo spariranno anche le altre deficienze che ancora disturbano la vita quotidiana.

I moscoviti fanno dello spirito su queste loro piccole deficienze, raccontando anche maliziose storielle, ma non per questo perdono di vista i grandi vantaggi che la vita nell’Unione Sovietica può offrire loro. Se voi insistete un po’ troppo sui piccoli inconvenienti, essi diventano aggressivi e girano la domanda. Sono loro a non capire come si possa vivere in un Paese capitalista. ” Come potete vivere” mi domandano, ” in quella cattiva aria morale, che dovete respirarvi? Anche se voi personalmente potete lavorare con tranquillità ed ogni comodità, non vi addolora la miseria che vi circonda e che potrebbe essere eliminata con un ordinamento statale intelligente? Non vi dà fastidio la palese irragionevolezza intorno a voi? Come è possibile continuare a vivere in un Paese, la cui economia non viene determinata da piani razionali, ma dalla volontà di guadagno dei singoli Il sentimento dell’incertezza, del provvisorio e della decadenza non vi dà fastidio Le statistiche della Germania presentano, su 65 milioni di abitanti, 52 suicidi al giorno; noi siamo 180 milioni e da noi vengono compiuti 34 suicidi al giorno. E guardate la gioventù dei Paesi capitalistici e confrontarla con la nostra. Quanti giovani occidentali hanno la possibilità dì scegliersi la professione che corrisponde al loro desiderio ed alle loro capacità? Chi da noi non ha questa possibilità? Quanti giovani devono preoccuparsi di che cosa diventeranno, di che cosa devono fare, se l’avvenire che hanno davanti non sia vuoto e piuttosto una minaccia che non. una speranza? ”

Simili obbiezioni non vengono soltanto usate a scopi propagandistici, ma tutti ne sono convinti. L’evidente metodicità dell’economia e di tutta la struttura statale ricompensa il singolo delle deficienze della vita privata, se ne fa caso; perché il visibile contrasto fra prima ed ora fa dimenticare queste privazioni. Chi ha occhi per vedere ed orecchie per sentire il tono falso o giusto dei discorsi della gente, si accorge che i discorsi sulla loro “vita felice” non sono frasi vuote.

E sanno che la loro prosperità non è una congiuntura che può passare, ma è il risultato di un piano razionale. Come ognuno capisce, si sono dovute porre le fondamenta, prima di poter arredare la casa. Fu necessario, in primo luogo, trasportare le materie prime, fondare le industrie pesanti, costruire le macchine, prima di poter procedere alla produzione di articoli di consumo e di manufatti. I cittadini sovietici compresero questo stato di cose e sopportarono le necessarie privazioni. Adesso è dimostrato che il piano era giusto, che si è seminato razionalmente, perciò si può fare un raccolto ricco e felice. E con immensa soddisfazione i cittadini sovietici assistono ora all’inizio di questo raccolto. Essi constatano che oggi, proprio come era stato loro promesso, innumerevoli oggetti sono a loro disposizione, di cui ancora due anni prima non avevano nemmeno osato sognare. Ed il moscovita entra nei grandi magazzini come un giardiniere, il quale, avendo seminato diverse qualità di fiori, vuole ora controllare ciò che è germogliato. Soddisfatto egli constata: oggi ci sono i berretti, oggi secchi, oggi apparecchi fotografici. Ed il fatto che gli uomini di governo abbiano mantenuto la parola è per loro una garanzia che il piano verrà seguito ulteriormente e che quindi di mese in mese la situazione migliorerà. Con la stessa certezza con cui sanno che il treno per Leningrado parte ad una determinata ora, sanno che fra due anni avranno tanti e quanti vestiti vogliono e fra dieci anni tutte le abitazioni che desiderano. La differenza fra lo sconfortante ieri ed il felice oggi, la notano più dì tutti i contadini, e di loro è composta la stragrande maggioranza della popolazione. Essi fanno di tutto per esprimere esattamente questo contrasto. I padri raccontano ai figli dei vecchi tempi cattivi, della miseria e dei tempi oscuri sotto lo zar. Noi conosciamo questi tempi dalle descrizioni dei classici russi. La maggior parte dell’anno questi contadini si nutrivano di acqua calda con un pizzico di tè e di pane secco difficilmente digeribile. Non sapevano né leggere né scrivere, il loro vocabolario consisteva in poche parole per designare gli oggetti più comuni e in quella poca mitologia loro inculcata dal pope. Ora questa gente ha abbondantemente da mangiare, conduce la sua economia agraria assennatamente e con crescente successo, ha abiti, cinematografi, radio, teatri, giornali ed ha imparato a leggere e a scrivere ed i loro figli hanno la possibilità di scegliere la professione verso la quale si sentono attratti. Il sapere, quindi, che lo Stato non esclude la maggioranza, a favore di pochi, dal godimento dei beni, ma che aiuta effettivamente la collettività nel modo più ingegnoso; questa certezza, confermata da un’esperienza ventennale, è penetrata nel sangue della popolazione ed ha creato una fiducia che non ho potuto riscontrare in nessun altro luogo.

Mentre in Occidente, scaltriti da cattive esperienze, si prova soltanto diffidenza per le assicurazioni e le promesse dei Governi, di modo che a priori si presume debba accadere il contrario di quanto il Governo assicura, nell’Unione Sovietica si ha la massima fiducia che le promesse fatte dalle autorità verranno mantenute fin nei minimi particolari. Sappiamo quanta fatica e propaganda devono fare gli Stati fascisti per strappare alle masse “dimostrazioni spontanee”; in centinaia di occasioni ho osservato la gioia ingenua con la quale i moscoviti si recano alle loro manifestazioni.

I vantaggi e le garanzie di cui gode il cittadino sovietico in confronto ai sudditi degli Stati occidentali, gli sembrano cosi enormi, che le deficienze della vita quotidiana scompaiono.

I piani economici socialisti garantiscono al singolo, lavoro e una vecchiaia priva di preoccupazioni. La disoccupazione non esiste più e così pure lo sfruttamento in senso letterale. La quantità di lavoro che lo Stato pretende da tutti i suoi cittadini, lascia loro la libertà di dedicare una gran parte delle proprie forze alle loro inclinazioni. Un giorno su sei è considerato festivo, si è introdotta la giornata lavorativa di sette ore e tutti hanno un mese di ferie pagate. Quanto sono povere le abitazioni dei singoli, altrettanto spaziosi, chiari e comodi sono i numerosi centri di riposo, a disposizione dei cittadini, a prezzi bassissimi, dove essi possono trascorrere le vacanze.

Il senso di assoluta sicurezza, la tranquillante certezza del singolo che lo Stato esiste realmente per lui ed egli soltanto per lo Stato, spiega l’orgoglio ingenuo con cui il moscovita parla delle “nostre fabbriche, la nostra economia agraria, le nostre costruzioni, i nostri teatri, il nostro esercito “. Ma la cosa di cui sono più orgogliosi è ” la nostra gioventù”.Questa gioventù è veramente la principale forza dell’Unione Sovietica.

La gioventù ha tutto quanto di cui può aver bisogno. Vi sono ovunque innumerevoli asili e giardini d’infanzia, in tutto il gigantesco Paese si stende una rete di scuole, che s’infittisce con incredibile velocità; vi sono appositi stadi, cinematografi e caffè per la gioventù e magnifici teatri. Ai più adulti provvedono le università, gli innumerevoli corsi istituiti presso ogni singola azienda e nei kolkos dei contadini e le istituzioni culturali dell’Armata Rossa. Le condizioni esteriori nelle quali la gioventù sovietica cresce, sono più favorevoli che altrove.

La maggior parte delle lettere che i giovani mi scrivono dai diversi Paesi, tranne che dall’Unione Sovietica, sono degli “S.O.S.” Una quantità di giovani occidentali non sa a che cosa appartengono, né esteriormente né intimamente; e non solo non hanno la prospettiva di ottenere il lavoro che a loro piace, ma nemmeno di ottenerne uno qualsiasi. Non sanno che cosa devono fare, quale senso dare alla loro vita, perché tutte le vie davanti a loro sembrano prive di meta.

Che soddisfazione è, dopo simili esperienze, incontrare quei giovani che poterono cogliere i primi frutti dell’educazione sovietica, i giovani intellettuali di origine contadina e proletaria. Come stanno fermi, sicuri e tranquilli nella vita, come si sentono membri organici di un tutto razionale. L’avvenire si stende davanti a loro come una strada asfaltata attraverso un magnifico paesaggio. Parlino in riunioni o con singoli, lo zelo ingenuo con cui descrivono 1a loro “vita felice” non è artificiale, dalla loro bocca straripa realmente quello di cui hanno pieno il cuore. Quando, ad esempio, una giovane studentessa della Scuola tecnica superiore che ancora pochi anni prima era operaia in una fabbrica, mi dice: “Alcuni anni fa non ero capace di scrivere esattamente una frase in russo ed oggi sono in grado di discutere con voi, in un tedesco passabile, sull’organizzazione di una fabbrica americana di automobili”, oppure una fanciulla della campagna comunica piena di gioia ad una riunione: “Quattro anni fa non sapevo né leggere né scrivere ed oggi mi posso intrattenere con Feuchtwanger sui suoi libri “, questo orgoglio è legittimo e deriva da una cosi profonda comunione col mondo sovietico, che questo sentimento di felicità si comunica anche all’ascoltatore. Secondo le statistiche dei Paesi occidentali, la percentuale di studenti di origine contadina o proletaria è esigua e si arriva forzatamente alla conclusione che in tali Paesi innumerevoli giovani dotati sono condannati all’ignoranza, soltanto perché i loro genitori non possiedono i mezzi necessari, mentre moltissimi sciocchi, i cui genitori sono ricchi, sono obbligati a studiare. È confortante vedere come nell’Unione Sovietica milioni di individui, i quali ancora vent ‘anni fa vivevano nella più crassa ignoranza, ora che sono state loro aperte le porte, si sono precipitati nelle braccia della cultura. Nello stesso modo con cui l’Unione Sovietica ha portato alla luce enormi ricchezze del suolo, finora inutilizzate, cosi ha reso utilizzabile una quantità di intelligenze che finora non erano state coltivate. Il successo conseguito in questo campo non fu inferiore a quello ottenuto nell’altro. Con avidità gioiosa questi contadini e proletari assorbono con i loro giovani cervelli non usati la nuova materia, la divorano, la digeriscono e la freschezza con la quale i loro giovani occhi considerano la civiltà di tre millenni e con la quale vedono nuovi ed inattesi aspetti di questa civiltà, consola chi, in base alle esperienze del dopoguerra, disperava dell’avvenire della specie umana.

André Gide racconta della presunzione di questa giovane generazione. Egli riferisce che gli è stato domandato se anche a Parigi esiste una metropolitana, che non è stato creduto quando ha affermato che in Francia era possibile vedere film russi, e che gli è stato detto in tono arrogante ed insolente che era inutile perdere il proprio tempo nello studio delle lingue straniere perché non c’era più nulla da imparare dall’estero. Siccome i giornali dell’Unione riportano sempre nuovi confronti della metropolitana moscovita con quelle straniere e manifestano sempre la loro gioia per il successo di film sovietici proiettati proprio in Francia, è evidente che Gide dev’essersi imbattuto in alcuni giovani sfacciati ed ignoranti. Ad ogni modo, a me non furono mai poste domande analoghe, sebbene avessi molte discussioni con giovani Russi, ed ero anche piacevolmente stupito dal fatto che molti di questi studenti parlavano tedesco, inglese o francese o due o tre di queste lingue. Per uno scrittore è una soddisfazione sapere che i suoi libri si trovano nelle biblioteche di questi giovani Sovietici. In quasi tutti i Paesi ci sono lettori interessati che pongono all’autore domande dettate dal desiderio di sapere. In Occidente, però, l’occuparsi di libri è generalmente solo un passatempo elevato, un lusso. Per i lettori dell’Unione Sovietica invece non sembrano esistere limiti fra la realtà ed il mondo dei libri. Essi si occupano dei personaggi dei libri come di quelli reali con cui vivono; discutono con essi, li sgridano, vedono la realtà negli avvenimenti di un libro o nei suoi personaggi. Ebbi occasione più volte di discutere i miei libri in riunioni di lettori nelle fabbriche. C’erano ingegneri, operai ed impiegati. Essi conoscevano benissimo i miei libri, talvolta meglio di me stesso… Non era sempre facile rispondere. Questi giovani contadini e proletari intellettuali pongono domande spesso inaspettate e difendono il loro punto di vista, rispettosi, ma ostinati e decisi. Non lasciano all’autore la possibilità di nascondersi dietro le leggi dell’estetica, dietro discorsi di tecnica letteraria e licenze poetiche. Egli ha creato i suoi personaggi, è responsabile di essi e se alle obbiezioni cortesi, ma risolute ed ai dubbi dei suoi giovani lettori dà risposte semi sincere, egli scorge immediatamente la loro scontentezza. È istruttivo intrattenersi con simile uditorio.

Si, da questa gioventù sovietica emana un sentimento contagioso di forza e felicità. Vedendo questa gioventù si comprende la fiducia dei cittadini sovietici nel loro avvenire, quella fiducia che li aiuta a passare sopra alle deficienze del loro presente.Tenterò di dimostrare con un esempio come questo accordo, mediante la fiducia nell’avvenire, abbia luogo, per cosi dire, tecnicamente.

Ho già detto quale penuria di case vi sia a Mosca. Ma, il moscovita capisce che anche nelle costruzioni si segue il principio: “Prima per la collettività e poi per il singolo”, e la vistosità degli edifici pubblici e dei giardini gli offre un certo compenso. I circoli per gli operai ed impiegati, le biblioteche, i parchi ed i campi sportivi, sono spaziosi, ricchi e comodi, gli edifici pubblici sono rappresentativi ed in seguito alla compiuta elettrificazione Mosca è illuminata di notte come poche altre città del mondo. La vita del moscovita si svolge per gran parte fuori di casa; egli ama la vita della strada, si trattiene volentieri nei suoi circoli e luoghi di riunione, è un appassionato parlatore e preferisce la discussione alla meditazione. Il fatto che i suoi circoli sono comodi gli rende più sopportabile la sua brutta casa privata. Ma egli si consola più di tutto con la promessa fattagli: Mosca sarà una bella città.

Che questa promessa sia qualche cosa di più di una parola priva di contenuto, è dimostrato dall’energia con la quale negli ultimi due anni si è proceduto alla ricostruzione di Mosca. Il calcolo ed il raziocinio che imprime il suo marchio sull’intera vita dell’Unione Sovietica, è particolarmente visibile nel grandioso piano di ricostruzione di Mosca. Non si riceve probabilmente in nessun modo un’impressione più rapida e profonda dell’Unione Sovietica che attraverso il modello della futura Mosca, esposto alla mostra di archi’ tettura. Le singole costruzioni che si possono vedere alla Esposizione di architettura non mi sembrano migliori o peggiori di quelle viste altrove; solo i lavori di tre architetti erano creazioni rivoluzionarie, per il resto c’è un eclettismo e classicismo che non dice molto. Un aspetto completamente diverso assume l’architettura dell’Unione Sovietica quando ci si trova davanti ai piani cd ai modelli di città costruite o ricostruii te e del come saranno proseguiti i lavori.

La più grandiosa di queste opere è la ricostruzione di Mosca. Tutti sanno che l’inizio della ricostruzione della città ebbe luogo fin dai primi tempi della rivoluzione; dovunque e continuamente si scava, si trivella, si martella, si fabbrica; strade spariscono ed altre ne sorgono; ciò che oggi sembrava grande, domani sembra piccolo, dato che improvvisamente è sorpassato da un grattacielo e tutto muta di continuo. Solo nel luglio 1935 il Consiglio dei commissari del Popolo decise di portare un po’ d’ordine in questo continuo mutamento, cioè decise di regolare anche la città di Mosca come l’intera Unione, e ciò in un periodo di dieci anni. Quello che è stato fatto dal luglio 1935 e ciò che verrà fatto nei prossimi Otto anni appare dal modello della futura Mosca alla Esposizione di architettura.

C’è un piccolo palco davanti al gigantesco modello, che rappresenta la Mosca del 1934, una città che sta a quella odierna come l’attuale a quella degli zar, che non era altro che un grosso villaggio. Il modello è elettrificato e linee elettriche azzurre, verdi e rosse indicano la direzione delle strade, della metropolitana e delle autostrade, ed indicano pure come saranno costruite razionalmente le abitazioni e risolto il problema del traffico della grande città. Le potenti diagonali e le circonvallazioni, i viali, le strade principali e secondarie, gli edifici per uffici pubblici, i palazzi delle industrie, i parchi, le scuole, le sedi del Governo, gli ospedali, i luoghi di studio e di divertimento, la disposizione e la divisione di tutto questo è regolato geometricamente. Mai altra metropoli è stata costruita come questa secondo le leggi dell’utilità e della bellezza. Si vedono brillare innumerevoli punti luminosi: sono le lampadine che indicano dove verranno costruiti scuole, ospedali, fabbriche, magazzini e teatri. Il fiume, la Moscova, avrà un altro corso nell’avvenire e possiederà un canale che la collegherà al Volga. Si costruiranno ponti ed il fiume verrà ricoperto in alcuni tratti; si costruiranno strade per l’afflusso dei generi alimentari, si provvederà all’approvvigionamento dell’acqua per la città, a quello dell’elettricità, ed al suo riscaldamento.

Tutto questo è però regolato in modo più razionale che in qualsiasi altra parte del mondo. Perché nelle altre città le necessità sono sorte col passar del tempo e soltanto dopo si è tentato di venirne a capo mediante il regolamento delle strade e del traffico. Ciò avvenne in modo più o meno casuale, mai razionalmente. Non solo queste città non erano sorte e cresciute organicamente, ma il successivo regolamento delle loro necessità fu anche reso più difficile dal fatto che esso contrastava con interessi privati, senza che ci fosse una autorità che potesse respingere questi interessi privati a favore della collettività. L’opposizione di esosi proprietari di terreno ha reso ovunque impossibile l’esecuzione di un razionale piano regolatore. Il prefetto Haussmann, che ricostrui intorno alla metà del secolo XIX la città di Parigi, ha scritto:

“Per poter realizzare il progetto dell’approvvigionamento dell’acqua, elaborato dall’ingegnere Belgrand, la città avrebbe dovuto acquistare le sorgenti della Somme e della Soude. Non fu però possibile convincere i proprietari privati e la questione rimase insoluta per questa ragione”. E quando nel 1923 si ricostruì la città di Tokio, distrutta da un terremoto, per 120 ettari di terreno, necessari per il suo ampliamento un quarto di quanto necessitava realmente si dovettero pagare 40 milioni di yen ai proprietari privati e rinunciare all’ingrandimento progettato in un primo tempo.

Per la futura Mosca non esistono questi ostacoli. Il piano regolatore non è ostacolato dall’adattamento a quanto già esiste, tutto è utile e razionale sin dall’inizio.

La disposizione delle tre diagonali, lunghe ciascuna da 15 a 20 chilometri, e che costituiscono le principali arterie per il traffico della città; le tre nuove strade radiali, l’ampliamento doppio della Piazza Rossa, la divisione dei quartieri di abitazione, lo spostamento di tutte le industrie pericolose e dannose alla salute pubblica, la costruzione dei vasti moli, gli undici nuovi ponti ed i nuovi viadotti ferroviari, la distribuzione degli impianti per il riscaldamento a distanza, i cinquecentotrenta nuovi edifici scolastici, i diciassette nuovi grandi ospedali e i ventisette ambulatori, come pure i nove grandi magazzini, l’ampliamento della città di trentaduemila ettari, l’impianto della enorme cintura di protezione a bosco, larga dieci chilometri che circonderà la città, l’istituzione dei cinquantadue parchi rionali nell’interno della città e dei tredici grandi parchi sul limitare della città, tutto questo è così ben ponderato ed armonico, che anche un osservatore profano resta colpito dalla grandiosità e bellezza del progetto.Gli ideatori di questo progetto si chiamano N.S.Krustscëv, L. M. Kaganovic e Giuseppe Vissarionovic Stalin.

È un godimento estetico senza pari contemplare il modello di una simile città, che a cominciare dalle basi è costruita secondo le regole del raziocinio ed è la prima nel suo genere. Ci si ferma davanti al gigantesco modello, osservandolo mentre gli architetti spiegano. Essi affermano che nel primo anno, 1935/36, volevano costruire un certo numero di scuole in una zona, che indicano (mentre dicono questo si accende un certo numero di lampadine), e dichiarano che

fu’rono realmente costruite (e si accende ancora un buon numero di lampadine). Dichiarano che nei primi diciotto mesi volevano erigere ospedali in un’altra zona, indicata mentre parlano, e anche questa volta li costruirono effettivamente (e si accendono più lampadine di quelle progettate). Si vuoi osservare il modello nelle singole parti: esso si divide automaticamente, si entra di qua e di là, si osserva la futura città, ci si sceglie i posti preferiti.

La cosa più bella è sapere che questo modello non è un giocattolo od una fantasia utopistica di un architetto occidentale, ma che fra otto anni sarà realtà. Questa certezza si basa sulle realizzazioni finora conseguite, sull’osservazione della differenza di aspetto che l’attuale Mosca ha in confronto a quella precedente. Nella Mosca dell’ultimo zar e erano 200.000 mq. di strade e piazze asfaltate o pavimentate, oggi sono saliti a 3.200.000. Nella vecchia Mosca ogni abitante consumava 60 litri di acqua al giorno, ora sono 160 (il berlinese ne consuma 130 litri). La vecchia Mosca aveva il sistema più retrogrado di circolazione del mondo; la nuova, con la sua vasta rete tranviaria, gli autobus e filovie e la sua magnifica metropolitana occupa, con la media di 550 viaggi all’anno per abitante, il primo posto fra le città del mondo. Il piano della nuova Mosca nei primi due anni della sua esecuzione, in cui si dovettero costruire le cose più difficili, è stato largamente superato. Si ha quindi la garanzia che verrà compiuto anche ciò che si deve fare negli Otto anni successivi. Non mi sembra sostanziale il fatto che in tempo straordinariamente breve siano stati costruiti case, strade e mezzi di trasporto. La straordinaria novità consiste piuttosto nella metodicità, nella razionalità dell’insieme, nel fatto che non sono state prese in considerazione singole necessità, ma quelle di tutta la città, anzi, di tutto il gigantesco Paese; perché il piano regolatore della nuova Mosca prevede anche che la città non avrà più di s milioni di abitanti e calcola fin d’ora dove distribuire l’eccedenza. In America, la città più grande ospita il 9 % della popolazione, in Francia il 12 %, in Inghilterra più del 15 %. L’Unione Sovietica, per molte ragioni evidenti, non desidera che il numero degli abitanti della sua capitale cresca esageratamente, essa la limita a priori al 2,5 % della popolazione totale.

Che piacere si prova, in confronto alle vaghe e vuote promesse dei piani quadriennali fascisti, nel vedere la precisione con la quale qui è stato pensato ad ogni particolare, la prudenza con la quale sono state considerate le possibilità della produzione e dell’apporto dei materiali necessari, e la conferma di queste possibilità da parte della realtà fino al presente anno di realizzazione.

Il rapporto ufficiale sul “Progetto della ricostruzione di Mosca” stabilisce: ” L’esecuzione di questo piano di lavoro richiede la tensione di tutte le forze, ma verrà eseguito “.Chi è stato a Mosca sa che lo sarà.

Dal capitolo primo della “Costituzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche” trascrivo gli articoli 118-121 sui ” Diritti ed i doveri dei cittadini “:

Articolo 118. – I cittadini dell’U.R.S.S. possiedono il diritto al lavoro, cioè il diritto all’assegnazione di lavoro sicuro ed al pagamento di tale lavoro, in misura della qualità e quantità. Il diritto al lavoro viene assicurato attraverso l’organizzazione dell’economia popolare, attraverso il continuo sviluppo delle forze produttive della società sovietica e mediante l’eliminazione delle possibilità di crisi economiche e di disoccupazione.

Articolo 119. – I cittadini dell’U.R.S.S. possiedono il diritto alla ricreazione. Il diritto alla ricreazione viene assicurato con la riduzione della giornata lavorativa per la maggior parte dei lavoratori fino a sette ore, con la fissazione di un periodo di ferie annue pagate agli operai ed impiegati e mediante la fitta rete di sanatori, centri di riposo e circoli dì categoria dei lavoratori.

Articolo 120. – i cittadini dell’U.R.S.S. possiedono il diritto ai provvedimenti materiali per la vecchiaia, come anche per quelli di malattia e di perdita della capacità di lavoro. Questo diritto è garantito dalla grande diffusione delle assicurazioni sociali per operai ed impiegati a spese dello Stato, dalle cure mediche gratuite per i lavoratori, dalla fitta rete di luoghi di cura messi a disposizione dei lavoratori.

Articolo 121. – I cittadini dell’U.R.S.S. possiedono il diritto all’istruzione.

Questo diritto è garantito dall’obbligo di frequentare le scuole elementari (l’insegnamento è gratuito fino all’Università compresa), dal sistema di borse di studio statali per la maggioranza degli studenti universitari, dall’insegnamento nella madrelingua, dall’organizzazione dell’insegnamento agrario e tecnico gratuito ai lavoratori nelle fabbriche, nei depositi di macchine e trattori e negli enti collettivi.

Come si vede, la differenza fra le solite costituzioni dei Paesi democratici e la Costituzione dell’Unione Sovietica consiste nel fatto che nelle altre costituzioni i diritti e le libertà dei cittadini sono bensì proclamati, ma non vengono indicati i mezzi con i quali questi diritti e queste libertà devono essere realizzate, mentre nella Costituzione dell’Unione Sovietica sono indicate anche le premesse della vera democrazia; perché senza una certa indipendenza economica la libera formazione del pensiero è impossibile ed il timore della disoccupazione e di una vecchiaia indigente e la paura per l’avvenire dei figli sono le peggiori nemiche della libertà.

È discutibile se tutti i 146 articoli della Costituzione sovietica siano stati realizzati oppure se alcuni siano rimasti delle semplici frasi. Indiscutibile, invece, è che i quattro articoli citati ed essi mi sembrano i presupposti di una democrazia realizzata non sono frasi vuote, ma espressione di realtà. Girando per la città di Mosca, è difficile vedere qualcosa in contrasto con questi articoli.

Tenendo conto di questo fatto e di quanto ho esposto più avanti, si deduce quanto segue: per ora il cittadino medio di molti Paesi ha ancora più agi del cittadino sovietico; ma questa vita comoda riposa su fondamenta incerte. Molti sono anche turbati dalla miseria che li circonda, il godimento delle loro comodità viene avvelenato sapendo che con una razionale sistemazione delle cose questa miseria potrebbe essere evitata. Il cittadino medio dell’Unione Sovietica vive attualmente molto meno comodamente di molti cittadini di altri Paesi, ma egli è più soddisfatto, più in armonia col suo destino, quindi più felice.

II COLLETTIVISMO E INDIVIDUALISMO

Lo scrittore André Gide ha avuto occasione di intervistare un operaio, uno stackanovista, cioè un operaio cottimista, che, come venne riferito a Gide, in cinque ore poteva compiere il lavoro di otto giorni, oppure, non so, in otto ore il lavoro di cinque giorni, non mi ricordo più esattamente. Oso domandare” prosegue Gide, “se ciò non significhi che l’uomo ha avuto prima bisogno di otto giorni, per compiere il lavoro di cinque ore “, ed egli si stupisce che la sua domanda fosse accolta freddamente e si preferisse non rispondere.

A questo proposito Gide fa osservazioni sull’indolenza dei moscoviti, “pigrizia sarebbe dire troppo”, aggiunge da osservatore obbiettivo. Ma, secondo lui, in un Paese dove tutti i lavoratori lavorano realmente, lo stackanovismo sarebbe superfluo. Nelle regioni meridionali della Unione Sovietica, egli dice, la gente si affloscia subito, non appena venga abbandonata a se stessa, e si è inventato lo stackanovismo per stimolare la sua negligenza; prima si usava la frusta, egli scrive.

Strane osservazioni queste fatte da Gide! Per conto mio debbo dire che notai la straordinaria operosità, attività e laboriosità dei moscoviti. Nelle strade si vedono facce affaticate; la gente, non appena i semafori proiettano la luce verde, attraversa frettolosamente la strada nei punti di passaggio, si spinge nelle stazioni della metropolitana, negli autobus e si agita come le formiche. Nelle fabbriche quasi nessun lavoratore alza lo sguardo dal proprio lavoro, al passaggio dell’insolito visitatore. Non parlo di quelli che occupano posti di responsabilità. Quelli non hanno quasi neanche il tempo per mangiare e dormire e non ci mettono nulla a fare uscire uno a metà di un’opera per porgli rapidamente un problema oppure a telefonargli alle tre o quattro di notte. In nessun posto ho trovato tanta gente che lavora indefessamente come a Mosca. D’altra parte osservai con dispiacere le conseguenze dannose del lavoro eccessivo su queste persone, che, per dire la verità, vengono logorate dal lavoro. Quasi tutti i moscoviti che occupano posti di responsabilità sembrano più vecchi di quanto non lo siano in realtà. Mentre cercai invano il ritmo americano a Nuova York o a Chicago, lo trovai a Mosca.

Bisogna poi finirla col luogo comune sulla lentezza dei Russi. Questo popolo che vent’anni fa soffocava quasi nella miseria, nella sporcizia e nella ignoranza, dispone oggi di un’industria sviluppatissima, di un’economia agraria razionalizzata, di un gran numero di città di nuova fondazione o ricostruite dalle fondamenta ed ha liquidato completamente l’analfabetismo. È possibile pensare che una cosa simile avrebbe potuto essere compiuta da parte di individui lenti per natura. Ammettiamo pure che l’Unione Sovietica abbia avuto la fortuna di trovare capi di straordinario talento: ma se tutti i geni di cui l’umanità ha potuto disporre nei secoli scorsi si fossero riuniti in questi ultimi decenni a Mosca, non avrebbero potuto ottenere da un popolo pigro per natura un simile gigantesco lavoro.

Nessuna meraviglia, quindi, che contadini ed operai finché dovettero lavorare per imprenditori e grandi proprietari terrieri privi di scrupoli abbiano considerato il lavoro un peso e tentato di sottrarvisi; da quando Si accorsero che i frutti di questo lavoro vanno a loro beneficio, il loro atteggiamento si è modificato fondamentalmente.

André Gide si meraviglia inoltre, e questa volta molti si stupiscono insieme a lui, della diversità del reddito nella Unione Sovietica. Io mi meraviglio di questo stupore. A me sembra assolutamente logico che l’Unione segua il principio socialista: “Ad ognuno secondo la propria capacità”, fintanto che non potrà essere realizzato il principio fondamentale ideale del comunismo: “Ad ognuno secondo le proprie necessità”. Secondo me, nel socialismo non si tratta di divisione della povertà, ma di divisione della ricchezza. Non vedo però in che modo si può dividere la ricchezza quando si obbligano coloro, dai quali ci si ripromette un grande rendimento, a condurre una vita così misera da pregiudicare questo rendimento. La concezione secondo la quale i cittadini di uno Stato socialista, fin che non possono condurre tutti una vita agiata, debbano condurne una misera o quanto meno modesta, mi sembra una deduzione atavica di concetti cristiani primitivi e piuttosto pii che razionali. I propugnatori di questa concezione mi ricordano un mio parente, un vecchio funzionario bavarese, che durante la guerra mondiale dormiva sul pavimento perché nelle trincee, diceva, i soldati non avevano letto.

Il timore che l’ineguaglianza del reddito possa far risorgere le classi appena spodestate, mi sembra infondato. Elemento base di una società priva di classi sociali rimane il fatto che dalla nascita tutti ricevono le stesse possibilità di istruzione e di scegliersi una professione, come pure, che ognuno ha la certezza che verrà educato secondo le proprie disposizioni. Questo principio fondamentale viene attuato nell’Unione Sovietica. Anche il suo più terribile nemico non lo può negare. Perciò non ho trovato a Mosca nessuna traccia di servilismo. La parola “compagno” non è una parola vuota, il muratore che sale dalla stazione della metropolitana si sente veramente pari al compagno commissario del popolo. In Occidente i figli di proletari e di contadini che riescono a studiare, sottolineano, secondo le mie esperienze, il loro passaggio alle classi più elevate e cercano di separarsi dai loro compagni dì classe. Nell’Unione Sovietica gli intellettuali di origine proletaria e contadina conservano stretti contatti con i lavoratori manuali, dal cui ambiente provengono.

Credo, tuttavia, di aver osservato un’incrinatura nell’Unione Sovietica. La giovane storia dell’Unione si scinde nettamente in due epoche: in quella della lotta ed in quella della ricostruzione. Ma un buon guerriero non è sempre un buon lavoratore e uomini che durante gli anni della guerra civile hanno fatto grandi cose, non sono necessariamente impiegabili nella ricostruzione. Ma chi ha avuto dei meriti nella fondazione dell’Unione credeva, naturalmente, di avere anche diritto ad occupare posti preminenti ed altrettanto logicamente per la ricostruzione sono stati impiegati i meritevoli della guerra civile, perché erano fidati.

Ora, però, la guerra civile è da lungo tempo passata alla storia, ed i vecchi rivoluzionari, se sono dei cattivi lavoratori, sono stati di nuovo esonerati dal loro impiego e molti di essi sono naturalmente diventati nemici del regime. L’esecuzione dei piani quinquennali, per quanto ben riuscita nell’insieme, non ebbe luogo senza attriti e furono compiuti errori nei singoli settori. Quelli che con l’offerta di tutte le loro forze hanno fatto un buon lavoro, si sentono ostacolati dallo scarso e deficiente lavoro dì altri e sono amareggiati.

Questi fanno presto a sospettare di sabotaggio coloro che non possiedono una maggior forza lavorativa. È fuor di dubbio che vennero compiuti atti di sabotaggio. Molti fra i caduti in disgrazia, ufficiali, industriali e grandi proprietari terrieri hanno fatto del sabotaggio ai posti di comando che occupavano.

Se ancora oggi l’approvvigionamento del cuoio e specialmente delle scarpe alla popolazione civile è insufficiente, ne hanno indubbiamente colpa i grandi proprietari terrieri, che a suo tempo sabotarono l’allevamento del bestiame. Anche l’industria chimica ed il traffico soffersero molto a causa di atti di sabotaggio. Se attualmente la sorveglianza delle fabbriche e delle macchine è particolarmente severa, essa è pienamente giustificata da molte ragioni.

Gradualmente, però, si è sviluppata nella popolazione una psicosi del sabotaggio. Essa si è abituata a spiegare col sabotaggio quanto non procede come dovrebbe, mentre gran parte della deficienza è da attribuire semplicemente ad incapacità.

A colazione ebbi ospite un alto funzionario. Il cameriere era lento. Il funzionario fece chiamare l’amministratore, si lamentò e disse, scherzando: “Non è un sabotatore?”. Ma non si scherza più quando si dichiarano atti di sabotaggio i film mediocri di un regista o gli articoli mediocri di un redattore, oppure quando si assicura che le brutte illustrazioni di un libro sulla ricostruzione dell’economia agraria sono da attribuire alla cattiva volontà dell’artista, che con il suo lavoro ha cercato di screditare la ricostruzione.

Che questa psicosi si sia fatta strada dimostra l’esistenza dì quel collettivismo che molti rinfacciano all’Unione Sovietica. La gente dell’Unione, dicono questi critici, è privata della propria personalità, il loro modo di vivere e le loro opinioni sono normalizzati, uniformati. “Chi ha parlato con un Russo”, dice Gide, “ha parlato con tutti i Russi.” In quest’affermazione c’è un po’ di vero. Non solo l’economia dei piani quinquennali, fintanto che la produzione dei prodotti finiti non si è ancora sviluppata notevolmente, provoca una certa standardizzazione dei beni di consumo, quali i mobili, i vestiti e gli oggetti dì prima necessità, ma anche la vita pubblica dei cittadini sovietici è notevolmente uniformata”. Riunioni, discorsi politici, discussioni e serate al circolo si assomigliano l’una all’altra, e la terminologia politica è uguale in tutto il vasto Paese. Esaminando quindi il problema più da vicino, il temuto “collettivismo” si basa su tre punti, e precisamente sull’uguaglianza delle opinioni per quanto riguarda i principi fondamentali del comune amore per l’Unione Sovietica e sulla fiducia, da tutti condivisa, che nel futuro l’Unione Sovietica sarà il Paese più felice e potente della terra.

Domina, pertanto, in primo luogo, l’opinione che è meglio che i mezzi di produzione non siano in possesso di una sola persona, ma in quello della comunità. Non trovo poi tanto cattivo questo collettivismo.

Anzi, diciamolo chiaramente, non è affatto peggiore della unanime opinione che quando due quantità sono uguali ad una terza, sono uguali tra loro. E nemmeno posso scandalizzarmi per l’amor patrio dei Russi, quantunque si esprima sempre in forme eguali, spesso molto ingenue. Devo piuttosto riconoscere che l’ingenuo orgoglio patriottico dei Sovietici non mi dispiace. Questo popolo giovane ha compiuto con sacrifici enormi una cosa grande, ed ora si trova davanti ad essa, ma non ci crede esso stesso ancora interamente, gioisce di quanto ha raggiunto ed insiste che anche lo straniero gli confermi sempre di nuovo, quanto è bello e grande ciò che ha raggiunto.

Questo patriottismo sovietico non esclude affatto ogni critica. “Autocritica bolscevica” non sono parole prive di senso. Nei giornali si possono leggere feroci attacchi a veri o presunti errori ed a personalità eminenti, che furono la causa principale di questi errori; ho partecipato stupito a riunioni di fabbrica in cui i dirigenti venivano aspramente criticati e mi sono fermato sconcertato davanti ad ordini del giorno in cui si insultavano o caricaturavano violentemente direttori e responsabili.

Allo straniero non si proibisce di esprimere liberamente la sua opinione. Ho già ricordato che i giornali del Paese non esercitarono nessuna censura sui miei articoli, anche quando questi lamentavano l’intolleranza in determinati settori o l’esagerato culto di Stalin, oppure quando desideravano maggiore chiarezza nello svolgimento di un importante processo politico. Non solo pubblicarono i miei articoli integralmente, ma la traduzione riproduceva il più fedelmente possibile tutte le sfumature delle frasi negative. Alle personalità del Paese con le quali parlai, piaceva, senza eccezione, di più sentirsi fare delle obbiezioni che non delle lodi. Misurano volentieri la propria capacità con quella dell’Occidente, la misurano esattamente, anche troppo esattamente talvolta, e non si vergognano di riconoscere quando il loro lavoro è inferiore a quello occidentale; anzi, molto spesso sopravvalutano la capacità occidentale a spese della propria.

Quando lo straniero si perde nella critica di inezie e per errori trascurabili perde di vista il valore dell’insieme, allora i Sovietici diventano facilmente impazienti e non perdonano i complimenti vuoti e non sinceri. (Forse la violenza con la quale reagirono al volumetto di Gide sull’Unione Sovietica si spiega proprio con il fatto che egli, durante la sua permanenza in Russia, non seppe far altro che lodare, ed aspettò a finire le sue obbiezioni soltanto quando ne fu lontano.)

Se, comunque, si leggono e sentono spesso obbiezioni a singoli fatti, non si sentono però mai critiche sulle direttive generali del partito. In questo si è “collettivi”, d’accordo. Su queste non esistono discordie, oppure se esistono non si ha il coraggio di esprimerle. In che cosa, però, consistono le direttive generali del partito?

Nel prendere le necessarie misure, partendo dalla convinzione che la costituzione del socialismo nell’Unione Sovietica è riuscita nelle sue parti fondamentali e che nella prossima guerra non c’è da pensare ad una disfatta. Anche su questo punto non posso biasimare il collettivismo. Se fino alla metà del 1935 il dubbio sull’esattezza di questa direttiva generale poteva avere ancora qualche fondamento, esso è stato cosi palesemente confutato da allora con la sempre maggiore prosperità del Paese e della forza dell’Armata Rossa, che il consenso di tutti anche su questo punto non significa altro che un generale riconoscimento del buon senso. Il collettivismo dei Sovietici si riduce, dunque, al comune e forte amore di patria. Altrove lo si chiama semplicemente patriottismo. Quando, ad esempio, in Inghilterra si produce una violenta zuffa durante una partita di calcio, che si ricompone immediatamente non appena viene suonato l’inno nazionale, questo fatto viene raramente chiamato collettivismo. Una sola differenza esiste fra il patriottismo dei Sovietici e quello degli altri Paesi: il patriottismo dei sovietici è meglio fondato. La vita del singolo migliora di giorno in giorno, non solo aumenta il numero dei rubli che guadagna, ma aumenta pure il loro potere d’acquisto.

Il salario medio reale del lavoratore Sovietico, dal 1929 al 1936, è aumentato del 278 È; ed il cittadino sovietico ha la certezza che questo sviluppo proseguirà ancora per molti anni. (Non soltanto per il fatto che le riserve auree della Germania sono scese a cinque milioni di sterline e quelle dell’Unione Sovietica sono aumentate a 1400 milioni.) È più facile essere patriota quando si hanno non soltanto più cannoni, ma anche più burro, che avendo soltanto più cannoni e niente burro. Non stupisce quindi più l’unanime ottimismo dei Sovietici. Esso si esprime con un vocabolario che per la sua uniformità diventa rapidamente banale. I Sovietici sono evidentemente soltanto agli inizi del sapere, non hanno quindi avuto il tempo di studiare una terminologia raffinata ed anche il loro patriottismo si manifesta pertanto in forme molto comuni. Lavoratori, ufficiali dell’Armata Rossa, studenti e giovani contadine assicurano tutti con le stesse frasi monotone che la loro vita è felice e si beano di questo loro ottimismo, come oratori ed ascoltatori. Le autorità hanno il loro daffare a curare questo stato d’animo, e l’entusiasmo “uniformato”, specialmente sostenuto dall’orchestra ufficiale, agisce a lungo andare spasmodicamente e cosi si spiega che anche critici simpatizzanti parlino di collettivismo.

La letteratura ed il teatro, fattori che contribuiscono massimamente alla formazione della personalità, sono seriamente ostacolati da questo ottimismo standardizzato. E’ un vero peccato; perché le condizioni per far fiorire la letteratura ed il teatro sono particolarmente favorevoli in Russia. Ho già osservato che il gigantesco Paese, mentre finora la maggioranza incolta della popolazione trascurava le cose dello spirito, produsse un’immensa quantità di talenti, fino a ieri non valorizzati. Scienziati, scrittori, artisti ed attori stanno bene nell’Unione Sovietica. Non solo sono apprezzati dallo Stato, protetti e viziati da considerazione e lauti guadagni; non solo vengono messi a loro disposizione tutti i mezzi di cui necessitano, ma nessuno ha da preoccuparsi: “Mi renderà quello che farò?”. Inoltre hanno a loro disposizione il pubblico più sensibile del mondo.

E’, ad esempio, difficile immaginarsi la fame di libri che hanno i Sovietici. Giornali, riviste e libri vengono divorati,. senza che l’appetito diminuisca minimamente. A questo proposito voglio raccontare un fatto occorsomi. Visitavo la nuova tipografia della Pravda, il giornale moscovita più diffuso. Giravamo sulla gigantesca rotativa, la più grande del mondo; essa stampa due milioni di copie in due ore. Nell’insieme la macchina assomiglia press’a poco alla massa di una gigantesca locomotiva e si gira sulla sua immensa piattaforma, lunga ottanta metri, come sul ponte di un transatlantico. E hanno i Sovietici. Giornali, riviste e libri vengono divorati. senza che l’appetito diminuisca minimamente. A questo proposito voglio raccontare un fatto occorsomi. Visitavo la nuova tipografia della Pravda il giornale moscovita più diffuso. Giravamo sulla gigantesca rotativa, la più grande del mondo; essa stampa due milioni di copie in due ore. Nell’insieme la macchina assomiglia press’a poco alla massa di una gigantesca locomotiva e si gira sulla sua immensa piattaforma, lunga ottanta metri, come sul ponte di un transatlantico. Quando ebbi girato per circa un quarto d’ora, osservai che la macchina occupava soltanto la metà del locale, lasciando l’altra metà vuota. Ne domandai la ragione. ” Per adesso stampiamo soltanto due milioni di copie della Pravda “, mi venne risposto. “Abbiamo però altri cinque milioni di richieste di abbonamento. Quando le nostre cartiere potranno soddisfare il Fabbisogno, pianteremo una seconda macchina.”

Anche i libri degli autori preferiti vengono stampati in edizioni che per il loro numero fanno rimanere a bocca aperta gli editori stranieri. Le opere di Puskin erano diffuse, alla fine del 1936, in più di 31milioni di esemplari ed i libri di Marx e Lenin in edizioni ancora superiori; soltanto la mancanza di carta limita il numero delle edizioni degli scrittori popolari. I libri di tali autori non si trovano presso nessuna biblioteca o libreria; quando si pubblica una nuova edizione, i compratori fanno la coda e l’edizione si esaurisce in poche ore, anche se consta di 20.000, 50000 o 100.000 esemplari. Nelle biblioteche ne esistono 70.000 – i libri degli autori preferiti devono venir prenotati molte settimane prima. Essi sono, quantunque costino poco, preziosi e mi sentii dire senza alcuna intenzione scherzosa: “Non è necessario chiudere sotto chiave il danaro, ma chiudete sotto chiave i libri “.

I libri degli scrittori più noti vengono tradotti nelle numerose lingue dell’Unione e l’autore viene letto in nazioni di cui sa a mala pena pronunciare il nome.

Ho già ricordato che i lettori sovietici si occupano più a lungo e più intensamente dei libri che i lettori di altri Paesi, e che i personaggi dei libri hanno una vita molto più reale. Gli eroi di un romanzo letto hanno nell’Unione Sovietica una vita cosi reale, come la può avere soltanto una personalità della vita pubblica.

Se uno scrittore ha toccato il cuore dei cittadini sovietici, egli viene amato come altrove lo è soltanto una stella cinematografica od un campione di boxe, e la gente si affida a lui come i cattolici credenti al loro confessore.

Anche i libri scientifici vi hanno un’eco molto forte. Una nuova edizione delle opere di Kant in 100.000 esemplari fu subito esaurita. Si discute intorno alla dottrina di un filosofo morto, con lo stesso interesse come intorno ad un problema economico di attualità che ha importanza pratica per tutti, o intorno alle qualità di un commissario del popolo. I cittadini sovietici respingono solo ciò che non ha rapporto con la loro realtà; quando però una cosa ha, o sembra avere, tale rapporto, allora vive di una vita più intensa che altrove ed il concetto “eredità”, che essi usano volentieri, è per loro qualcosa di molto tangibile.

In condizione analoga si trovano le arti rappresentative. È difficile, parlando del teatro e della cinematografia moscoviti, raccontare obbiettivamente e non divagare, sia sulle rappresentazioni, sia sul pubblico. I Sovietici sono i migliori e più abili registi e musicisti del mondo. Non solo è perfetto il modo con cui i moscoviti eseguiscono i propri compositori, quali Ciaikovski, Rimski Korsakov o Il placido Don dcl giovane Gersinski, ma anche come suonano il Figaro o la Carirten.

La regia, la esecuzione e le scene sono pure insolitamcntc nuove e vivaci. Rappresentazioni simili a quelle del Teatro degli Arusti o del Teatro Vachtangov di Mosca mancano negli altri Paesi, astrazion fatta dal talento, dalla pazienza ed anche dal denaro; perché per raggiungere una simile padronanza di ogni parte e dell’insieme, furono necessarie prove di mesi, qualche volta anche di anni e queste sono possibili soltanto quando dietro al regista non c’è la spinta dell’impresario che deve badare al risultato finanziario. Le scene sono di una perfezione come non ho visto da nessun’altra parte; l’arredamento, quando è richiesto, come nell’opera, ad esempio, o in certi lavori storici, è di una ricchezza persino esagerata. Prima si tendeva alla stravaganza. Ciò è stato superato, si è diventati più misurati, ma ci sono sempre ancora Interessanti esperimenti. Nel Teatro Vachtangov ho visto una esecuzione di Molto rumore per nulla, leggera in ogni suo particolare, ardita fino alla impudenza, e Shakespeare e la musica da jazz stavano bene insieme. Accade anche a Mosca che lo stesso lavoro venga dato in teatri e stili diversi, ad esempio Otello, Giulietta e Romeo ed anche opere e lavori di autori contemporanei. Ho visto in due teatri di Mosca il lavoro di un giovane autore, Pogodin, intitolato Aristocratici, l’argomento del quale è una colonia di detenuti. Gli artisti del Vachtangov lo eseguivano ottimamente, tradizionalmente e fedeli fin nei minimi particolari. Ochlopkov, invece, lo rappresentava su due scene collegate da una specie di ponte, una delle quali era stata fatta erigere nel centro della sala, senza decorazioni; tutto vi era assolutamente stilizzato, molto sperimentale ed efficace.

Il teatro di Leningrado, mi dicono degli intenditori, non rimane indietro a quello moscovita e lo supera sotto certi aspan. Nelle provincie sono stati costruiti bei teatri in base agli ultimi perfezionamenti tecnici e si mandano famose e sperimentate compagnie della capitale, non per brevi stagioni teatrali, ma per recitare stabilmente.

Il cinematografo dispone di mezzi ancora maggiori ed anche il regista ha la possibilità di sperimentare senza badare a spese. Come siano ricompensate tali fatiche, l’ho visto in film, appena finiti di girare o non ancora del tutto terminati, di Reismann, Roschal ed in primo luogo nel meraviglioso film, realmente poetico, di Eisenstein, Beschin Lug, un capolavoro, pieno di intimo e legittimo patriottismo sovietico.

Ma anche il pubblico è grato. Mosca possiede 38 grandi teatri, un gran numero di teatri nei circoli, teatri per filodrammatici e simili, ed una serie di nuovi teatri è in costruzione. Tutti questi teatri sono quasi sempre esauriti, e non è facile ottenere i biglietti; nel Teatro degli Artisti, mi è stato detto, non si è ancora avuto un posto vuoto dalla sua fondazione. Il pubblico siede davanti al palcoscenico od alla tela, abbandonato, godendo ogni sfumatura, ma nello stesso tempo ancora pieno di quell’ingenuità che sola rende possibile il puro godimento di un lavoro artistico.

Questo pubblico sensibile è nello stesso tempo critico ed innocente: gli “piace una discreta sfumatura psicologica non meno di una decorazione magistrale. Quando il grande attore Chmelov, nella parte dello zar Feodor nel lavoro omonimo del vecchio Alessio Tolstoi, bonario e debole, resta impacciato, invece di entrare energicamente, e si stira appena percettibilmente il collo, come se qualcosa lo opprimesse, con un sorriso incerto sulle labbra, il vecchio che sedeva vicino a me respirò profondamente con un’aria infelice; egli aveva subito capito che lo zar, lassù sulla scena, sorrideva di sé e del suo regno. E quando Otello sobillato da Jago crede alla passione di Desdemona per Cassio, la giovane donna vicino a me emise un piccolo grido ringhioso, sbuffò dalla rabbia e disse sprezzante: ” Stupido!”. Invece quando nell’ultimo atto della Carmen si alza il muro del circo ed il pubblico pieno di aspettativa vede la corrida, si senti un profondo e felice “Ah!” di stupore emesso dai duemilacinquecento spettatori. E bisogna aver visto la disperazione con la quale gli spettatori del film di Vichnevski Noi di Kronstadr guardavano come le guardie bianche costringono i loro prigionieri ammanettati a saltare in mare e la ribellione con la quale reagirono al fatto che anche il più giovane, un quindicenne, vien fatto annegare.

Come si vede, gli scrittori e la gente di teatro sovietici hanno un pubblico ideale, essi godono in pari tempo della protezione statale nella misura più vasta ed il loro lavoro dà una gioia serena.

Ma sono proprio loro che vengono ostacolati da quell’ottimismo standardizzato di cui parlavo più indietro.

La politica dell’arte perseguita dall’Unione Sovietica non è uniforme.

È di manica molto larga verso tutta la vecchia letteratura, si curano i classici russi e stranieri, l’eredità, ed anche per gli scrittori occidentali contemporanei si ha una misura sola, la qualità. A Mosca si pubblica un’ottima rivista in lingua russa, tedesca, inglese e cinese, la Letteratura internazionale ed è difficile concepire qualcosa di più grandioso di questo collegamento fra la letteratura sovietica e quella straniera. Il sogno dei classici tedeschi di una “Letteratura universale” ed una “Repubblica di dotti non e giunto in nessun luogo tanto vicino alla sua realizzazione, come nell’Unione Sovietica.

Considerata questa tolleranza, stupisce tanto maggiormente la politica dei piani economici, perseguita rispetto agli autori russi contemporanei. Non si sopprime interamente uno scrittore che devia dalla “linea generale”, ma si preferiscono visibilmente quelli che trattano il più spesso possibile il “Leitmotiv” dell’ottimismo eroico in tutti i loro lavori.

La vita nell’Unione Sovietica ha certamente ancor oggi un tono fondamentale eroico, che è in grado di trascinare gli artisti, e la minaccia di guerra da parte delle potenze fasciste deve influire sulla mentalità degli scrittori ed artisti in modo che tale ottimismo eroico ritorna frequentemente come “Leitmotiv” in molti lavori. Ma credo che l’insistenza di temi eroici nei libri, sulle scene e nei film sia richiesta, o meglio voluta, dai dirigenti. Lo scrittore che devia dalla linea generale non ha certamente vita facile. Un grande lirico, ad esempio, che sia di temperamento autunnale e melanconico o non eroico-ottimista, viene a mala pena stampato, letto ed amato, ma nella stampa non si vede più nulla e pubblicamente non si sente più nulla di lui. Il timore del disfattismo vietato si manifesta in coloro che amministrano i mezzi di produzione, spesso in forme proprio infantili. Un racconto, ad esempio, scritto da un noto scrittore, ed in cui un aviatore raggiunge un primato e precipita, venne stralciato dalla raccolta di racconti di questo autore da parte del paurosissimo redattore con la scusa che era ” troppo pessimista”.

Ancora più fortemente che nei libri, questa tendenza a non deviare dalla linea generale dell’ottimismo eroico si nota sulle scene e specialmente nei film. Qui interferiscono ovunque i controlli statali sulla produzione, si cerca di raddrizzare le tendenze politiche del lavoro a spese della qualità artistica, di rafforzarlo, di volgarizzarlo. L’ottimismo eroico ha indubbiamente prodotto alcuni ottimi lavori, la Trasedia ottimistica di Vichneski ad esempio ed il suo film Noi di Kronstadt od il lavoro Lontananza di Afinogenov oppure l’opera già ricordata del giovane Gersinski, Il placido Don.

Qui la tendenza, per quanto visibile, non è perturbatrice, quantunque Il placido Don ci avrebbe guadagnato se alla fine la bandiera rossa fosse stata sventolata una volta sola invece di due. Ma in altri lavori, nel film come pure sulla scena, l’effetto artistico viene spesso limitato da questa troppo evidente tendenza. Il lavoro Intervento ad esempio od il film L’ultima notte sono tecnicamente perfetti, ma il grossolano chiaroscuro dei caratteri disgusta. Forse ci si chiede come mai io mi possa permettere giudizi cosi decisi, dopo aver riconosciuto le mie insufficienti conoscenze della lingua russa. E questa è un’ottima occasione per cantare le lodi degli interpreti russi. A Mosca si è abituati al fatto che gli stranieri non conoscono la lingua nazionale esi dispone di interpreti di stupefacente abilità. In teatro siedono vicino alla persona che accompagnano e gli sussurrano le traduzioni parola per parola nell’orecchio, di modo che si possono udire le parole russe ed in certo modo si ha vicino un libro vivente e ciò vien fatto con un tatto così straordinario che si dimentica quasi la penosa deficienza della comprensione immediata.

Ma ritorniamo al nostro tema. Lavori seri o film contemporanei, vengono a mala pena rappresentati se non trattano argomenti politici e ciò rende il repertorio dei teatri e film sovietici piuttosto povero. Un’ottima opera venne respinta perché il libretto non si adattava alle direttive generali. I teatri di prosa che non vogliono rappresentare lavori esclusivamente eroico ottimisti, si rivolgono ai classici. Durante il tempo in cui rimasi a Mosca, non meno di otto teatri hanno dato Shakespeare; anche Beumarchais, Schiller, Ostrovski, Cogol, Tolstoi, Gorki e Gozzì furono rappresentati nei teatri moscoviti, come pure una riduzione teatrale di un romanzo dì Dickens, tutto ottimamente eseguito. I registi di film, che non vogliono inscenare temi eroico ottimistìci, possono girare al massimo commedie e farse. ” Un autore” mi fu detto a Mosca, “che vuol far eseguire un lavoro apoliético, deve, se non si chiama Gorki, essere morto da a]meno cinquant’anni”, e questo scherzo Suonava un po’ amaro. La politica artistica dell’Unione Sovietica ha per risultato che quanto viene rappresentato a Mosca, è molto migliore di quanto viene dato altrove. L’Unione Sovietica possiede un magnifico teatro, ma non ha dramma.

Non fu sempre cosi, però. Prima gli argomenti dei lavori e dei film che si vedevano a Mosca erano indubbiamente più vari. Chiedendo ai dirigenti perché ciò è stato modificato, perché da un anno o due la produzione letteraria ed artistica viene controllata più rigorosamente di prima, si ottiene per risposta che l’Unione Sovietica è minacciata da una prossima guerra e non bisogna trascurare la preparazione morale. Questa è una risposta che si ottiene anche a parecchie altre domande nell’Unione, ed essa spiega molte cose che oltre frontiera sono difficilmente comprensibili.

Ma non spiega sufficientemente, secondo la mia opinione, gli ostacoli posti agli artisti. Lo Stato può porre dei compiti agli artisti. Ma non ritengo utile che costringa l’artista mediante una più o meno forte pressione ad accettare questi compiti ed all osservazione delle direttive generali. Sono convinto che l’artista risolve nel migliore dei modi il compito che pone a se stesso. Inoltre, i cittadini dell’Unione sono talmente portati alla politica, che la politica si esprimerebbe egualmente nei lavori degli artisti, anche se non fossero obbligati a scegliere argomenti politici.

III DEMOCRAZIA E DITTATURA

Ed eccoci arrivati al problema più discusso quando si parla della Mosca del 1937: come si sta nell’Unione Sovietica quanto a “libertà”?

Intrattenendosi con i Russi su questo tema, essi dichiarano che soltanto loro possiedono la vera Democrazia; quella dei cosiddetti Paesi democratici è una libertà puramente formale. Democrazia significa dominio del popolo: ma, essi chiedono, in che modo il popolo può esercitare questo dominio quando non possiede i mezzi di produzione? Nei cosiddetti Paesi democratici, affermano, il popolo domina soltanto di nome, ma non ha la potenza effettiva per farlo. La potenza è posseduta da coloro che dispongono dei mezzi di produzione.

A che cosa sì riduce, proseguono, la cosiddetta libertà democratica, osservata più attentamente? Essa si limita alla libertà di mormorare impunemente contro il Governo e contro i partiti avversari e a gettare ogni tre o quattro anni una scheda in un’urna elettorale. Ma in nessun luogo queste ” libertà ” offrono la garanzia o solo anche la possibilità di realizzare effettivamente la volontà della maggioranza.

Che cosa fare di una libertà di stampa, di opinione e di riunione, quando non si dispone delle tipografie e delle sale di riunione: E dove il popolo dispone di queste cose? Dove il popolo può esprimere efficacemente la propria opinione, dove può farsi rappresentare efficacemente?

La Costituzione di Weimar era considerata la più liberale del mondo. Il Parlamento, scelto in base al diritto di elezione di questa Costituzione, ha mai tentato di eseguire la palese volontà del popolo? Questo Parlamento è stato in grado di impedire la dittatura della minoranza fascista? Ed i Russi concludono: tutte le cosiddette libertà democratiche rimangono libertà apparenti, fin che non sono convalidate dalla vera libertà popolare, cioè fintanto che la generalità non disponga dei mezzi di produzione.

” Vedete” – mi dichiarò un eminente uomo di Stato dell’Unione Sovietica, “i dirigenti politici delle democrazie borghesi hanno riconosciuto in tempo, come noi, che di fronte alla minaccia di guerra da parte degli Stati fascisti una sola politica garantisce il successo e cioè quella di un’attrezzatura adeguata.

Ma in considerazione delle elezioni, del Parlamento e dell’opinione pubblica creata artificialmente, essi dovettero celare la loro opinione. Oppure, nel migliore dei casi, potevano esprimerla con metafore e con prudenza. Essi dovettero strappare gli stanziamenti necessari alla loro opinione pubblica ed al loro Parlamento, mediante lusinghe o minacce. Se non ci fossimo stati noi se non ci fossimo attrezzati, la guerra fascista sarebbe già scoppiata da molto tempo. L’attività dei Parlamenti democratici non è valsa ad altro che ad amareggiare la vita dei responsabili, ad ostacolarli nell’esecuzione di quanto era necessario o a renderne quanto meno difficile l’esecuzione. Il risultato del cosiddetto parlamentarismo democratico e della cosiddetta libertà di stampa democratica è che ognuno che gode di notorietà deve lasciarsi insultare o deve passare parte del suo tempo a confutare offese prive di fondamento. Invece di compiere del lavoro utile, i ministri di uno Stato parlamentare devono passare la massima parte del loro tempo a rispondere a domande superflue e controbattere obbiezioni assurde. ”

Devo convenire che questa spiegazione mi sembra qualche cosa di più di una semplice caricatura. Io stesso, per la maggior parte della mia vita, tenni molto a queste libertà democratiche, e specialmente la libertà di opinione e di stampa mi stava, come scrittore, molto a cuore. Le famose parole di Anatole France che la democrazia consiste nella libertà del ricco e del povero di dormire sotto i pilastri dei ponti sulla Senna, mi sembrarono un aforisma altrettanto grazioso quanto divertente. La mia fede democratica ricevette un primo colpo durante la guerra, quando osservai che, nonostante ogni democrazia, la guerra veniva perseguita contro la volontà della maggioranza delle popolazioni. Negli anni del dopoguerra si manifestarono sempre più le lacune delle comuni costituzioni democratiche ed oggi sono del parere che le libertà borghesi non sono che un tranello da parte di una piccola minoranza per poter eseguire la propria volontà.

Per quanto concerne l’Unione Sovietica, sono convinto che essa ha percorso gran parte della strada che conduce alla Democrazia socialista. È un fatto che nell’U.R.S.S. è il popolo, e non i singoli, che possiedono i mezzi di produzione; inoltre, mentre i Paesi democratici con le loro chiacchiere sul disarmo e col loro venir incontro agli Stati fascisti stimolarono questi a commettere sempre nuove violenze, la sola Unione Sovietica, con un razionale riarmo, impedì al fascismo di incominciare la sua guerra contro un mondo male armato. I dirigenti dell’Unione Sovietica non solo hanno quindi il diritto di manifestarmi, con una certa ironia, che soltanto le loro “misure democratiche” hanno reso possibile l’ulteriore esistenza delle democrazie occidentali; essi hanno anche creato una vera “democrazia”, in quanto hanno trasferito i mezzi di produzione alla comunità ed hanno prodotto armi efficaci per assicurare il loro possesso.

I nemici dell’Unione Sovietica vi gettano volentieri in faccia la frase di Lenin: “La libertà è un pregiudizio borghese”. La citazione è errata. La frase afferma esattamente il contrario di quello che essi dicono. Essa è contenuta nella monografia – Discorsi sulla libertà – e Lenin vi parla dello ” smascheramento senza riguardo dei pregiudizi democratici piccolo borghesi sulla libertà e sull’eguaglianza”. ” Fintanto che non saranno eliminate le classi” egli scrive, “ogni discorso sulla libertà e sull’eguaglianza è inganno. Fintanto che non sarà risolto il problema della proprietà dei mezzi di produzione, non si può parlare di una vera libertà di personalità umana e di una vera eguaglianza degli individui, ma soltanto della libertà di classe dei proprietari e dell’ipocrita eguaglianza fra possidenti e nullatenenti, fra sazio ed affamato, fra sfruttatore e sfruttato.”

Questo concetto della libertà è un assioma per il cittadino sovietico. La libertà di poter imprecare pubblicamente contro il Governo, può essere una buona libertà; ma egli ritiene libertà ancora migliore non dover avere timore della disoccupazione, della vecchiaia indigente e della preoccupazione per il destino dei suoi figli. Stalin espresse pensieri simili in un discorso tenuto agli operai stackanovisti. ” La libertà da sola non basta”, disse egli. ” Quando manca Il pane, quando mancano il burro ed i grassi, quando mancano le stoffe per fare i vestiti, quando le condizioni di abitazione sono cattive, con la sola libertà non è possibile fare molto. È molto difficile, compagni, vivere di sola libertà. Per poter vivere bene e felici, i beni della libertà politica devono essere completati da quelli materiali. ”

Non posso fare a meno di citare qui la frase scettica del filosofo troppo poco noto, Fritz Mauttiner, sul concetto della libertà democratica. ” Uno Stato democratico” egli scrive, “è uno Stato i cui cittadini sono politicamente liberi. Solo che dall’antichità o per una nuova e recente superstizione viene determinato come devono essere fatte le leggi: mediante le deliberazioni dei più ricchi, dei più vecchi, oppure della maggioranza. In nessun luogo si trova chiaramente espresso il concetto che la libertà politica consiste nel far fare le leggi agli ignoranti e che tali leggi vanno poi fatte rispettare da tutti. La libertà politica viene regolarmente ottenuta con una rivoluzione, cioè con l’abolizione delle limitazioni legali. Siccome, però, una tale abolizione è utopistica ed un ordinamento della società non è concepibile senza limiti legali la prima cosa che fa il nuovo ordinamento della società è di negare l’abolizione e di innalzare nuove barriere che a loro volta si chiamano pure libertà.”

Ma ritorniamo all’Unione Sovietica. La Costituzione dell’Unione prevede nell’articolo 125:

“In armonia con gli interessi dei lavoratori ed allo scopo di determinare il sistema socialista, i cittadini dell’Unione Sovietica hanno garantito attraverso la legge: a) la libertà di parola, b) la libertà dì stampa, c) la libertà di riunione, d) la libertà di fare cortei e dimostrazioni. Questi diritti dei cittadini sono garantiti dal fatto che ai lavoratori e alle loro organizzazioni vengono messi a disposizione le tipografie, la carta, gli edifici pubblici, le strade, le poste, i telefoni e telegrafi e le altre condizioni necessarie per il loro esercizio “. Questo articolo è straordinariamente tranquillante; esso non si limita, come i corrispondenti articoli di altre costituzioni, a garantire la libertà di parola e di stampa, esso ne indica anche i mezzi.

La pratica dimostra tuttavia che, nonostante queste garanzie, la situazione della libertà d’opinione e di stampa non è affatto ideale nell’Unione Sovietica.

Come ho dimostrato più sopra, parecchi scrittori sono molestati dalle autorità politiche ed il fatto che Platone desiderava che i poeti fossero esclusi dal suo Stato, è una magra consolazione per gli interessati.

Per quanto debba riconoscere che l’articolo 125 della Costituzione sovietica non sia stato ancora interamente realizzato capisco, d’altra parte, che l’Unione Sovietica non vuole percorrere affrettatamente il resto della strada che la separa dalla realizzazione dello Stato socialista. L’Unione Sovietica non avrebbe mai potuto raggiungere quanto ha fatto, se si fosse permessa una democrazia parlamentare in senso occidentale. Mai sarebbe stata possibile la costruzione del socialismo con piena libertà di critica. Mai un Governo, costantemente aggredito dal Parlamento e dalla stampa e dipendente dai risultati elettorali, avrebbe potuto obbligare la popolazione a compiere gli sforzi che devono garantirne la costruzione.

E posti davanti all’alternativa di dedicare la massima parte delle loro forze alla difesa di attacchi stolidi e maligni e tutta la loro forza al compimento di questa costruzione, i dirigenti dell’Unione hanno deciso la limitazione della libertà di critica. Ma la maldicenza o la critica è un occupazione che sta tanto a cuore a molta gente che si pensa di non poterne fare a meno. Tutte le lingue possiedono molte espressioni per questa occupazione, e mi posso immaginare che a parecchi la limitazione alla libertà di critica sembri puro dispotismo. Molti pertanto dichiarano essere l’Unione Sovietica il contrario di una democrazia, anzi si spingono ad affermare che fra l’Unione e le dittature fasciste non esiste nessuna differenza. Poveri ciechi! La dittatura dei Sovietici si limita in fondo a non ammettere due concetti, espressi sia con parole e scritti, sia con fatti: primo, l’opinione che la costruzione del socialismo nell’Unione sia impossibile senza rivoluzione mondiale; secondo, l’opinione che l’Unione Sovietica deve perdere la prossima guerra. Chi, pertanto, da questo trae la conclusione della completa eguaglianza fra Unione Sovietica e dittature fasciste, trascura, secondo me, una differenza essenziale: quella cioè’, che l’Unione Sovietica proibisce l’agitazione per il principio che due più due fanno cinque, mentre le dittature fasciste la proibiscono per il principio che due più due fanno quattro.

Ma parliamo seriamente. I Sovietici vorrebbero naturalmente poter eliminare le deficienze estetiche che la loro vita pubblica presenta ancora. Che lo vogliano, lo hanno dimostrato accettando la loro Costituzione e con l’entusiasmo con cui l’hanno accolta. Ma è gente prudente e metodica, e nello stesso modo con cui incominciarono la produzione dei beni di consumo su vasta scala, dopo essersi assicurato il fabbisogno di materie prime e macchine, nello stesso modo vogliono far godere i singoli di tutti i diritti della Democrazia socialista, quando avranno assicurata la continuità di questa democrazia attraverso una vittoria o mediante l’eliminazione del pericolo di guerra.

“Nulla da fare, compagno,” mi disse un dirigente dell’Unione, quando parlammo delle deficienze esteriori che sfigurano ancora la democrazia socialista. ” Siamo un esercito in marcia. Prima dobbiamo conseguire la vittoria. Poi potremo considerare se è meglio attaccare i bottoni dell’uniforme un po’ più in alto, o un po’ più in basso.”

“Ma che cosa volete?” mi domandò scherzando sullo stesso tema un filologo sovietico. “Democrazia significa dominio di popolo, dittatura vuoi dire predominio di un singolo. Quando però questo singolo rappresenta il popolo in modo ideale, come avviene da noi, allora democrazia e dittatura non sono la stessa cosa? ”

Questo scherzo ha un retroscena molto serio. L’adorazione di Stalin, il culto fanatico che il popolo ha per lui, è la prima cosa che salta agli occhi dello straniero che viaggia nell’Unione.

Su tutti gli angoli, in posizioni appropriate e non appropriate, si vedono busti ed immagini di Stalin. I discorsi che si sentono, non soltanto quelli politici, ma anche quelli su temi artistici e scientifici cari, sono costellati con glorificazioni di Stalin e spesso la deificazione dell’uomo assume forme prive di buon gusto.

Eccone alcuni esempi. È logico vedere busti di Stalin nelle diverse sale dell’Esposizione di architettura prima descritta; perché Stalin è uno dei creatori del progetto di ricostruzione della città di Mosca. Ma è difficile comprendere che cosa ha a che fare il brutto enorme busto di Stalin con l’esposizione di opere di Rembrandt, organizzata, per il resto, con ottimo gusto a Mosca.

E rimasi anche stupito, quando, in una conferenza sulla “tecnica del dramma sovietico”, udii come l’oratore, altrimenti misurato, ad un tratto proruppe in un mostruoso inno sui meriti di Stalin.

Non c’è dubbio che questa esaltata adorazione sia sincera nella maggior parte dei casi.

La gente sente la necessità di esprimere la sua gratitudine e la sua sconfinata ammirazione. Essa crede veramente di dovere tutto quello che ha e tutto quello che è a Stalin. E per quanto strana e sconcertante possa sembrare la venerazione di Stalin a noi occidentali, non ho trovato tracce che indichino che essa sia artificiale o montata. É piuttosto cresciuta organicamente insieme ai risultati della ricostruzione economica. Il popolo è grato a Stalin per il pane, la carne, l’ordine, l’istruzione e per la garanzia di questo suo nuovo benessere mediante la creazione dell’esercito. Il popolo deve avere qualcuno a cui dimostrare la sua gratitudine per il visibile miglioramento del tenore di vita ed a questo scopo non può servirsi di una persona astratta, non è grato ad un “comunismo” astratto, ma ad un uomo tangibile, e quest’uomo è Stalin. Il Russo ha la tendenza agli estremi: la sua lingua ed i suoi gesti hanno qualcosa di superlativo ed è contento quando può far traboccare il cuore. Lo sconfinato omaggio non vale quindi soltanto per Stalin, ma anche per i rappresentanti della ricostruzione economica. Il popolo dice: noi amiamo Stalin, e questa è la espressione più ingenua e naturale della sua approvazione delle condizioni economiche, del socialismo e del regime.

Si aggiunga inoltre che Stalin fa veramente parte del popolo. Egli è figlio di un calzolaio di campagna ed ha conservato i rapporti con operai e contadini. Più di qualsiasi altro uomo di Stato da me conosciuto, egli parla il linguaggio del popolo. Non è certamente ciò che si chiama un grande oratore. Parla faticosamente, in modo stentato, per nulla brillante e con voce rauca. I suoi argomenti sono tormentati, essi si rivolgono al sano buon senso di gente che capisce bene, ma lentamente. Stalin possiede però in primo luogo il senso dell’umorismo, un umore da piccolo contadino, scaltro, piacevole e spesso aspro. Nei suoi discorsi cita volentieri aneddoti umoristici attinti da scrittori popolari russi, egli spiega questi aneddoti, ne dà l’applicazione pratica, i suoi discorsi si leggono come le vecchie storie dei nonni. Quando Stalin parla, con il suo sorriso astuto e piacevole, e tendendo l’indice, egli non pone, come altri oratori, una barriera fra sé e l’uditorio, egli non si pone pieno d’imponenza sul palcoscenico e gli altri siedono sotto di lui, ma si forma rapidamente un’intesa e una viva confidenza fra lui e gli ascoltatori. Sono fatti della stessa materia, accessibili agli stessi argomenti, ridono gaiamente delle stesse semplici storielle. Non posso fare a meno di citare un esempio della popolare oratoria staliniana. Egli parla della Costituzione e mette in ridicolo l’ufficiosa Deutsche Korrespondenz, la quale dichiara che la Costituzione dell’Unione Sovietica non può essere considerata una vera Costituzione, dato che l’Unione Sovietica rappresenta soltanto un concetto geografico.

” Come spiegarsi con simili critici? “, domanda Stalin. Ed egli racconta una parabola allegra alla riunione: “In una delle sue favole, il grande scrittore russo Scedrin dipinge un funzionario amministrativo stupido ed ingenuo, ma altrettanto presuntuoso ed ostinato. Un giorno questo funzionario vede sul lontano orizzonte l’America, un Paese non molto importante, ma che comunque è amministrato in modo notevole e dove esistono certe libertà, che eccitano il popolo. Il funzionario vede dunque l’America e si arrabbia. Che Paese è quello, da dove è spuntato, con quale diritto esiste? Bene, è stato scoperto per caso alcuni secoli fa. Non è possibile ricoprirlo, affinché non ci sia più?” Così pensa il nostro funzionario ed egli decreta il provvedimento: “L’America deve essere nuovamente fatta scomparire! ” “Mi sembra” dichiara Stalin agli ascoltatori, ” che il critico” della Deutsche Korrespondenz assomigli a questo funzionario.

L’Unione Sovietica è da lungo tempo una spina nel cuore per lui. Da diciannove anni è un faro, essa accende i lavoratori di tutto il mondo con lo spirito della liberazione e suscita l’ira dei nemici della classe operaia. Ed è un fatto che l’Unione Sovietica non esiste semplicemente, ma anzi cresce, e non solo cresce, ma prospera anche e non solo prospera, ma si dà anzi una nuova Costituzione, una Costituzione che eccita gli spiriti e dà nuove speranze alle classi oppresse. Perché il critico della Deutsche Korrespondenz non dovrebbe inquietarsi? “Che genere di Paese è, – grida egli – con quale diritto esiste? E, se è stato scoperto nell’ottobre 1917, perché non lo si può far scomparire nuovamente, affinché non ne rimanga più nulla?” Così egli pensa, e dispone: “L’Unione Sovietica deve essere nuovamente fatta scomparire; dichiaro formalmente che l’Unione Sovietica non esiste come Stato, che essa non rappresenta altro che un concetto geografico.”

“Tuttavia, con tutta la sua stupidità, il funzionario di Scedrin, dopo aver preso la decisione che l’America deve essere nuovamente fatta scomparire, ha ancora abbastanza cervello per capire che ciò non dipende da lui. Non so se il critico della Deutsche Korrespondenz sia abbastanza intelligente per arrivare alla stessa conclusione, che egli può benissimo fare scomparire questo o quello Stato sulla carta, ma quando si parla seriamente ciò non dipende da lui.”

Così Stalin parla al suo popolo. Come si vede, i suoi discorsi sono poco sgargianti e un pò ingenui; ma a Mosca bisogna parlare chiaro e forte per essere intesi fino a Vladivostok. Stalin parla quindi chiaro e forte e tutti lo capiscono, tutti se ne compiacciono ed i suoi discorsi rappresentano l’intesa fra il popolo che li sente e l’uomo che li pronuncia.

Del resto Stalin è molto riservato, al contrario di molti altri governanti. Non si è attribuito nessun titolo altisonante e si chiama semplicemente “segretario del Comitato centrale”. Si mostra in pubblico soltanto quando è strettamente necessario; non intervenne, ad esempio, alle grandi dimostrazioni che ebbero luogo a Mosca sulla Piazza Rossa, per festeggiare la nuova Costituzione che porta il suo nome. Quasi nulla trapela in pubblico della sua vita privata. Si raccontano centinaia di aneddoti su di lui, come gli sta a cuore la vita di ogni singolo, come ha inviato un veivolo carico di medicinali nell’Asia centrale per salvare un bambino che altrimenti sarebbe morto, oppure come ad uno scrittore troppo modesto ha assegnato, quasi con la forza, un’abitazione decente e spaziosa. Ma simili aneddoti vanno solo di bocca in bocca e soltanto in casi eccezionali ad un giornale è permesso pubblicarli. Della vita privata di Stalin, della sua famiglia e delle sue abitudini non si sa quasi nulla di sicuro. Egli ha proibito il festeggiamento del suo compleanno. Se gli viene reso omaggio, deve essere attribuito esclusivamente alla sua politica e non alla sua persona. Quando il Congresso votò la promulgazione della Costituzione da lui proposta e definitivamente redatta e gli fece un entusiastica ovazione, egli pure applaudì dimostrando cosi che non attribuiva l’omaggio alla sua persona, ma unicamente quale riconoscimento della sua politica. È noto che a Stalin non piace la deificazione di cui è oggetto ed ogni tanto la mette in ridicolo. Si racconta che ad una colazione intima, data il capo d’anno ad una piccola cerchia d’amici, egli alzò il suo bicchiere e disse: “Bevo alla salute dell’incomparabile capo dei popoli, del grande e geniale compagno Stalin. Ecco, miei cari, questo è l’ultimo brindisi che in quest’anno mi viene fatto.”

Di tutti gli uomini potenti che ho conosciuti, Stalin è il più semplice. Parlai con lui francamente del culto smisurato e privo di gusto dedicato alla sua persona ed egli rispose altrettanto francamente. Mi disse che gli dispiaceva dover perdere tanto tempo per i suoi doveri rappresentativi. Ciò può essere facilmente creduto; perché Stalin, come mi è stato dimostrato con molti esempi documentati, è incredibilmente attivo ed egli si occupa di ogni particolare, di modo che non gli resta effettivamente tempo per le cortesie e gli omaggi superflui. Su cento telegrammi di omaggio che gli pervengono, fa rispondere in media ad uno. Personalmente è molto positivo, fin quasi alla scortesia e gli piace che il suo interlocutore sia altrettanto positivo. Egli scrolla le spalle sulla mancanza di gusto dell’esagerata adorazione della sua persona.

Scusa i suoi contadini ed operai che avrebbero avuto troppo da fare per poter occuparsi anche del gusto e scherza sulle centomila immagini enormemente ingrandite di un uomo con baffi che nelle dimostrazioni passano sotto i suoi occhi. Gli faccio notare che uomini di indubbio cattivo gusto pongono statue e busti di Stalin anche dove proprio non ci vorrebbero, ad esempio alla esposizione di Rembrandt. Allora diventa serio. Egli sospetta che dietro simili esagerazioni stia lo zelo dì uomini che si siano convertiti tardi al regime ed ora tentino di dimostrare la loro fedeltà con aumentata intensità. Anzi, egli ritiene possibile che dietro ad essa sia nascosta l’intenzione di sabotatori e che in tal modo cerchino di screditarlo. “Un pazzo servile” dice irritato, “produce più danno di cento nemici.” Se tollera tutto quel fracasso, dichiara egli, lo fa perché sa quanta ingenua gioia il baccano festivo procura a coloro che lo hanno preparato e che non è dedicato alla sua persona, ma al rappresentante del principio che la ricostruzione dell’economia socialista nell’Unione Sovietica è più importante della rivoluzione permanente.

I comitati del partito di Mosca e di Leningrado hanno nel frattempo preso decisioni con le quali viene giudicata severamente “la falsa pratica di omaggi superflui e privi di buon senso ai dirigenti del partito” e dai giornali sono scomparsi gli esagerati telegrammi d’omaggio.

Tutto considerato, non si può trascurare con una scrollata di spalle la nuova Costituzione democratica che Stalin ha dato all’Unione Sovietica. Se i mezzi impiegati da lui e dai suoi collaboratori possono esser sembrati spesso equivoci l’astuzia era per la loro lotta altrettanto indispensabile quanto il coraggio, Stalin è sincero quando, come sua meta finale, indica la realizzazione della democrazia socialista.

IV NAZIONALISMO E INTERNAZIONALISMO

Ogni limitazione diretta o indiretta dei diritti oppure, viceversa, la fissazione di privilegi diretti o indiretti per cittadini in base alla loro razza od alla loro appartenenza nazionale, come pure qualsiasi propaganda a favore di esclusività razziali o nazionali oppure la propagazione dell’odio di razza o di nazionalità sono puniti dalla legge”, dice l’articolo 123 della Costituzione sovietica.

Il capitolo 2 della Costituzione, intitolato “La ricostruzione dello Stato” enumera una quantità infinita di nazioni; cosi quando ad un congresso moscovita ci si incontra con tante genti diverse, quale Georgiani, Turkmeni, Usbeki, Kirghisi, Tagiki, Calmucchi e Iacuzi, ci si rende ben conto qual compito prodigioso debba essere stato il riunire tutte queste diverse genti sotto l’insegna della falce e del martello. C’è voluto anche un po’ di tempo prima che l’Unione sia venuta a capo del problema delle nazionalità.

Ora però l’ha regolato definitivamente; essa ha dimostrato che è possibile riunire il nazionalismo e l’internazionalismo.

Quando Stalin nel 1924 riconosceva e proclamava che il contadino russo portava in sé la possibilità del socialismo, cioè, con altre parole, poteva in pari tempo essere nazionale ed internazionale, venne deriso dai suoi oppositori e dichiarato un utopista. Al momento attuale, la pratica ha dimostrato esatta la teoria di Stalin: il contadino è socializzato dalla Russia Bianca fino allontano Oriente. L’amore patrio dei Sovietici non è inferiore a quello dei fascisti, ma è l’amore per la patria sovietica, cioè non si basa soltanto su una mistica subcoscienza, ma è rafforzato dalla ragione. Il grande psicologo pratico Stalin ha compiuto il miracolo di mobilitare il patriottismo di molti popoli per gli scopi del socialismo internazionale. Oggi accade veramente che lontane colonie siberiane apprendano con indignazione l’attacco della Germania e dell’Italia alla Repubblica spagnola, come se fossero minacciate esse stesse. In ogni casa dell’Unione è appesa una carta della Spagna ed ho visto nei dintorni dì Mosca i contadini sospendere il lavoro o la colazione per andare alla casa delle riunioni dove potevano avere notizie radiofoniche sugli avvenimenti spagnoli. Anche nella gente di campagna si è riusciti a risvegliare, insieme al nazionalismo, un sentimento di unione internazionale.

La formula staliniana “nazionale nella forma internazionale di fatto” è stata tradotta in realtà. Lo stesso socialismo viene manifestato nelle molte lingue dell’Unione in svariate forme, nazionale nell’espressione, internazionale nell’essenza. Le caratteristiche nazionali delle Repubbliche autonome vengono curate amorevolmente, quali la lingua, arte e folclore di ogni specie. Ai popoli, che finora conoscevano soltanto la lingua parlata, è stata data una scrittura ed un alfabeto. Ovunque sono stati fondati musei nazionali, istituti scientifici per lo studio delle tradizioni nazionali, teatri d’opera e di prosa nazionali di livello elevato. Ho assistito all’entusiasmo con il quale i frequentatori molto viziati dei teatri moscoviti hanno accolto l’opera georgiana quando l’ospitarono nel loro grande teatro.

Ho potuto constatare nel migliore dei modi come sia sana ed efficace la politica delle nazionalità dell’Unione, osservando il loro metodo per risolvere l’antica ed apparentemente insolubile questione ebraica. Il ministro zarista Plehwe non seppe far di meglio, a questo proposito, secondo le sue parole, che obbligare un terzo degli Ebrei a convertirsi, un terzo ad emigrare ed un terzo a morire. L’Unione trovò un’altra strada Essa ha assimilato la maggior parte dei suoi cinque milioni di Ebrei, all’altra parte ha messo a disposizione un vasto territorio autonomo ed i mezzi per la colonizzazione ed in questo modo si è creata parecchi milioni di cittadini attivi, intelligenti e di aderenti fanatici.

Nell’Unione Sovietica incontrai molti Ebrei di diversa specie e, poiché la questione mi interessa, parlai molto con loro. Il ritmo straordinario del processo di produzione ha bisogno di uomini, mani e cervelli; gli Ebrei si lasciarono volontariamente inquadrare in questo processo e ciò favori l’assimilazione che vi è più progredita che altrove.

E’ accaduto che degli Ebrei mi dicessero: “Da molti anni non penso al fatto di essere Ebreo; soltanto le vostre domande me lo ricordano”. Commovente è l’unanimità con la quale gli Ebrei che incontrai dimostrarono di essere d’accordo con il nuovo Stato. Prima erano stati disprezzati, perseguitati, gente senza professione la cui vita era priva di senso; ora sono contadini, operai, intellettuali, soldati e sono riconoscenti per il nuovo ordine.

Straordinaria è l’avidità con la quale gli Ebrei, per tanto tempo tenuti lontani dall’economia agricola, si gettarono su questa nuova professione loro aperta. Spesso vennero da me Ebrei delegati di enti collettivi economici per invitarmi a visitare le loro colonie. Per me era più interessante sentire quello che mi raccontavano su questi kolkos contadini sovietici non Ebrei. Pare che questi originariamente fossero prevenuti sugli Ebrei e non li ritenessero adatti ai lavori agricoli. Ora sorridono bonariamente al ricordo dì questo loro pregiudizio. Mi venne riferito su grandi e pacifiche scommesse fatte fra colonie ebraiche e non ebraiche nell’Ucraina, in Crimea, nel bacino del Don. I cosacchi del Don mi riferirono che gli Ebrei avevano vinto la loro antica diffidenza non già con la concorrenza agraria, ma dimostrandosi migliori cavalieri.

Non minore è la passione con la quale gli Ebrei, tenuti lontani per secoli dall’istruzione e dalla scienza, si sono gettati ora su questi due rami. Mi venne raccontato che nei villaggi ebraici esiste una strana deficienza di uomini e donne fra i quindici e trent’anni. Questo perché tutta la gioventù ebraica si reca in città a studiare.

Se lo sviluppo economico favorisce da un lato la assimilazione degli Ebrei sovietici, l’Unione ha d’altra parte liquidato la tesi “della dannosa illusione di un popolo ebraico” ed ha dato la possibilità ai suoi Ebrei di conservare la loro nazionalità.

Il nazionalismo degli Ebrei sovietici si distingue per un certo pacato entusiasmo. Come sia poco romantico, pratico ed audace risulta da due fatti. In primo luogo non riconosce come lingua propria l’ebraico, nobile e tradizionale, ma poco utile, bensì il jiddish formatosi nella vita quotidiana e costituito da elementi eterogenei, che viene però usato da cinque milioni di individui come lingua di comunicazione. Ed in secondo luogo il territorio offerto agli Ebrei per la fondazione del loro Stato nazionale ed in cui essi si sono fissati è lontano ed è difficile, ma ricco di illimitate possibilità. Come tutte le lingue nazionali, il jiddish viene curato amorevolmente nell’Unione. Ci sono scuole e giornali in questa lingua, esiste una letteratura e si tengono congressi per la tutela del jiddish e gli spettacoli in questa lingua godono della massima considerazione.

Nel teatro statale di Mosca ho vista un ottima esecuzione in jiddish di Re Lear con il grande attore Miehoels nella parte principale e con l’eccellente buffo Suskins,con magnifiche scene nuove ed ottimamente interpretato.

La fondazione dello Stato nazionale ebraico nel Birobidzian urtò dapprima contro difficoltà insormontabili ed il progetto fu considerato dai nemici dell’Unione e non soltanto da essi, un’impresa altrettanto disperata quanto la ricostruzione dell’economia socialista. I mezzi finanziari inadeguati resero più difficile l’esecuzione del progetto, molti dei colonizzatori ritornarono e già i nemici dichiaravano trionfanti che il piano era un’utopia, naufragato per la lontananza del territorio, per la conformazione geologica del terreno, per la piaga delle zanzare e per la malaria, e ragione non ultima per la scarsa capacità a fare il pioniere degli Ebrei russi degenerati delle piccole città.

Ebbene, ora nel territorio del Birobidzian c’è una città, con scuole, ospedali, edifici pubblici ed un teatro e vi si può arrivare da Mosca in carrozza diretta. Sebbene il piano preveda l’immigrazione di oltre centomila Ebrei nei prossimi tre anni, le autorità devono vagliare severamente, tante sono le domande di immigrazione.

Ho ricevuto molte lettere dal Bìrobidzìan ed ho parlato con molte persone che venivano direttamente. Nessuno nega che la vita vi sia ancona dura. Ma anche nessuno nega più che il più difficile sia stato fatto e che l’utopia sia diventata realtà.

La Repubblica Socialista Ebraica esiste. Essa esiste solidamente, sebbene la conformazione geologica del terreno lo permetta altrettanto poco, quanto le eterne leggi dell’economia nazionale consentano la costruzione dell’economia socialista in un solo Paese.

v GUERRA E PACE

In tutto il mondo si parla molto della prossima guerra e la domanda: “Quando credete che scoppierà la guerra? ” è uno dei temi di conversazione preferiti. Sebbene tutti si occupino col pensiero della prossima guerra, in Occidente, ad eccezione degli Stati fascisti, nessuno la prende più sul serio, nello stesso modo come ognuno vive e dispone della vita senza tenere seriamente in considerazione la propria morte, quantunque sappia che questa è sicura.

Nell’Unione Sovietica, invece, ognuno tiene conto della futura guerra con assoluta sicurezza.

La nostra prosperità, dicono i Sovietici, è in cosi evidente contrasto con le teorie fasciste, che gli Stati fascisti, se vogliono continuare a vivere, ci debbono annientare. Nello stesso modo in cui coloro che vivevano di un lavoro manuale esercitato in maniera primitiva si sentivano minacciati dalla macchina e si riunirono per assalirla, cosi gli Stati fascisti si getteranno finalmente su di noi.

I dirigenti di questi Paesi sanno benissimo che una guerra contro di noi avrà per sicura conseguenza la propria disfatta. Eppure devono farla. Le difficoltà economiche da essi create, li spingeranno infine a provocarla. Un Governo, come quello tedesco, non può continuare indefinitamente a sottrarre burro, grassi ed alimenti al suo popolo, promettendogli di fabbricare cannoni che dovrebbero ripagarlo di tutte queste cose in larga misura, e usarli soltanto nelle riviste militari.

Non è facile illustrare come l’uomo della strada sovietico s’immagina i fascisti. Egli si rappresenta i seguaci di Hitler, Mussolini e Franco come una specie di primitivi, o selvaggi, certamente forniti di armi tecnicamente moderne, ma del tutto all’oscuro di quel che sono gli elementi di civilizzazione. Secondo il cittadino sovietico, i fascisti vedono nella civiltà la loro più grande nemica, tanto che desiderano la morte di lui, cittadino sovietico, quale esponente di questa civiltà nemica. Fra le frasi coniate dai fascisti tedeschi i Sovietici ne ricordano particolarmente una: si trova su un calendario tedesco ufficiale e non è stata diffusa, quindi, soltanto in Germania, ma anche in tutto l’Oriente; essa dice: “Mai un Tedesco potrà essere un intellettuale. Siccome ogni cittadino sovietico, sia esso contadino, operaio o soldato, aspira proprio a diventarlo, egli vede necessariamente nel fascista tedesco il principale nemico. Non sentono propriamente odio per lui, ma piuttosto ripugnanza come per un insetto fastidioso e velenoso.

Un rublo ogni sei del reddito totale viene impiegato in misure difensive contro i fascisti. È un duro sacrificio. Il cittadino sovietico sà che tutte le deficienze che rendono più difficile la sua vita in confronto a quella del cittadino occidentale sarebbero già state eliminate, se si fosse potuto disporre del sesto rublo. Ognuno potrebbe vestirsi meglio ed avere una casa più comoda.

Ma i cittadini sovietici sanno pure che, alle loro frontiere, dei buffoni maligni spiano il momento di precipitarsi loro addosso e che devono, quindi, difendere efficacemente le loro frontiere.

Essi lavorano perciò alla costruzione della loro economia socialista con la stessa lena con cui gli Ebrei lavorarono al loro secondo tempio e cioè tenendo in una mano la cazzuola e nell’altra la spada. Si parla della guerra non come di un avvenimento del lontano avvenire, ma come di un fatto imminente. I Russi considerano la guerra come una amara necessità, spiacevole, ma essi sono sicuri del fatto loro, come se si trattasse di una dolorosa operazione a cui bisogna sottoporsi, ma di cui è garantito il buon esito.

Si fa naturalmente quanto si può per ritardare lo scoppio della guerra, ed anche per evitarla, nonostante tutte le apparenze contrarie. L’Unione ha il massimo interesse perché la pace duri il più possibile. Essa sta arredando la sua casa, le case diventano più abitabili, essa stessa diventa ogni giorno più ricca, più forte. Non sente, quindi, soltanto la necessità di gioire della nuova casa quando sarà finalmente completata, senza doversi prima battere con il vicino malvagio, ma sa anche che, quanto più le è possibile ritardare lo scoppio della guerra, tanto più forte sarà e tanto minor sacrificio le costerà la vittoria finale.

Essendo però sicuri che la guerra scoppierà, e che, anzi, avrà inizio tra breve, ci si regola in conseguenza. Come è già stato detto, con questa mentalità di guerra si spiegano molte cose, le quali altrimenti rimarrebbero inspiegabili. Ho già parlato dei lavori e dei film che trattano argomenti di guerra, degli innumerevoli libri e poemi che vantano l’eroismo dei partigiani nella guerra civile e durante l’intervento. Durante i quattro anni della guerra mondiale al fronte non si videro tanti morti, battaglie e lotte quanto sui palcoscenici e sulla tela durante la mia permanenza di dieci settimane a Mosca.

Questa mentalità si manifesta nel modo più evidente nell’Armata Rossa. Essa è nel senso più profondo della parola un esercito popolare; se al mondo esiste un esercito che è “il nostro esercito” lo è senza dubbio quello sovietico. Bisogna udire con le proprie orecchie con quanto amore i sovietici parlano del “nostro esercito”. Esiste un intimo legame fra armata e popolazione. Gli ufficiali provengono per la stragrande maggioranza dalla classe operaia e contadina, di modo che non solo la mentalità dei condottieri, dei soldati e della popolazione è la stessa, ma i civili e l’esercito sono strettamente legati sotto ogni riguardo. I soldati si trovano a loro agio nei circoli operai, i singoli reparti di truppe patrocinano istituzioni culturali e sportive ogni formazione dell’esercito è da parte sua in rapporti particolarmente amichevoli con una parte del territorio, un rione cittadino, una singola organizzazione operaia o contadina. Nelle grandi manifestazioni l’esercito non sfila da solo, ma ad esso si mescola la popolazione civile.

Come a suo tempo l’esercito romano, così anche l’Armata Rossa considera uno dei suoi compiti più importanti la colonizzazione, la continuazione dell’educazione del popolo. L’Armata Rossa ha costruito bellissimi teatri, fondato grandiose biblioteche, e sovvenziona largamente la cinematografia. Essa pubblica una serie di giornali e riviste di cultura generale. Ad un tè offertomi dalla più importante rivista letteraria di Mosca, la Snamja, fui sorpreso di vedere moltissimi ufficiali. Appresi che questa rivista viene pubblicata e patrocinata dall’Armata.

Sorprendente è l’eclettismo di molti militari ed in primo luogo il loro interessamento per la letteratura. Uno scrittore, Leone Trotzki, fu uno degli organizzatori dell’Armata Rossa ed ancora oggi parecchi scrittori hanno una funzione in essa. Conosco più di un generale che ricopre importanti cariche tanto nel giornalismo che nell’Armata. Molti scrittori hanno partecipato alla guerra civile ed a quella imperialistica, molti sono ancora ufficiali nell’Armata Rossa e quasi tutti gli scrittori sovietici si interessano a questioni militari.

Uno dei condottieri dell’Armata, che per il resto ricorda l’ufficiale prussiano di vecchio stampo, si è fatto un nome come poeta lirico; le sue poesie si possono leggere anche nell’edizione tedesca da lui redatta. D’altra parte è uno scrittore russo che ha contribuito efficacemente all’andamento favorevole della lotta in Spagna. Non conosco nessun altro Paese dove le capacità militari vadano tanto di frequente unite a quelle letterarie; molti autori e redattori pensano di comandare presto reparti di truppa invece di continuare a dettare i loro manoscritti.

Tanto gli ufficiali che i soldati non sì occupano di materie militari con leggerezza. Forse perché tutti questi uomini sanno che devono passare attraverso una guerra che esige da ogni singolo molto più che sole cognizioni militari.

Il vantaggio psicologico che in caso di guerra l’Armata Rossa avrà rispetto ai suoi nemici, è che i suoi soldati lotteranno per una causa non solo cara per patriottismo, ma anche perché la ragione l’ha fatta sua.

VI STALIN E TROTZKI

Ci sono pertanto uomini, come è stato dimostrato, che si sono affermati come combattenti e come organizzatori nel campo agricolo ed industriale. Giuseppe Stalin mi sembra un uomo simile. Egli ha un passato militare e rivoluzionario; la vittoriosa difesa della città di Zarizyn, che ora porta il suo nome: Stalingrado, deve essere attribuita a lui ed il suo rapporto a Lenin nell’autunno 1918, un rapporto di settanta righe, ebbe per conseguenza l’efficace mutamento di tutto il piano di guerra. Ma il lavoro dell’organizzatore Stalin, la fondazione dell’economia socialista, supera ancora le capacità del combattente.

Leone Trotzki, nel ritratto che traccia di se stesso, la sua autobiografia, si sforza di dimostrare che anch’egli è un uomo dotato in modo analogo, che anch’egli è un grande combattente ed un grande capo della ricostruzione. Soltanto che proprio questo tentativo intrapreso certamente dal migliore avvocato di Trotzki, cioè da lui stesso, mi sembra dimostrare che, nel migliore dei casi, i servizi di Trotzki rimasero limitati al periodo della guerra.

L’autobiografia di Trotzki è certamente il libro di un ottimo scrittore e probabilmente anche di un uomo tragico. Ma l’autoritratto non rispecchia però un grande uomo di Stato. Per essere tale gli mancano, secondo me, superiorità misura e senso della realtà. Un orgoglio smisurato non gli permette di tener conto del limite delle possibilità e, per quanto gradito sia uno scrittore che desidera l’impossibile. tale mancanza di misura pregiudica il concetto che si ha dell’uomo di Stato. La logica di Trotzki, secondo me, è campata in aria; non è sostenuta da quella conoscenza dell’anima che garantisce un duraturo successo politico. Il libro di Trotzki è pieno di risentimento, soggettivo dalla prima all’ultima riga, appassionatamente ingiusto; la verità si mescola sempre all’invenzione. Questo fatto rende molto attraente il libro; ma per il giudizio di un politico una simile mentalità non è vantaggiosa.

Secondo me, un solo piccolo particolare dimostra in modo lampante la superiorità di Stalin su Trotzki: Stalin diede ordine di includere nella ufficiale “Storia della guerra civile” redatta da Gorki, un ritratto di Trotzki; il libro di Trotzki, invece, ha soltanto odio e disprezzo per Stalin e muta malignamente tutti i suoi meriti in demeriti. Per l’uomo vinto è piuttosto difficile rimanere obbiettivo.

Trotzki lo sa e lo esprime in belle frasi. “Non sono abituato” – termina la prefazione al suo libro – “a considerare gli avvenimenti storici dal punto di vista del destino personale. Riconoscere la legalità degli avvenimenti e trovare il proprio posto in questa legalità, è il primo dovere del rivoluzionario. É la più alta e personale soddisfazione che può capitare ad un uomo, il quale non lega il suo compito alla giornata.”

Secondo me, nessuno può correre maggior pericolo di quello corso da Trotzki dopo la sua caduta, il pericolo di ogni vinto, il pericolo cioè “di considerare gli avvenimenti storici dal punto di vista del proprio destino”. Trotzki vide questo pericolo, egli riconobbe l’errore a cui era tanto vicino e che lo doveva tentare. Egli lo riconobbe, decise di non cadervi ma vi cadde. Egli vide il meglio, e fece il peggio.

Trotzki mi sembra il tipico rivoluzionario al cento per cento; molto utile in tempi di lotta, ma non più quando si tratta di lavoro tranquillo e continuo e non di eccitazione Non appena il tempo eroico della rivoluzione fu superato, Trotzki deformò il mondo e gli uomini ed incominciò a vedere tutto in una luce falsa. Ostinato, mentre Lenin da lungo tempo aveva adattato le sue concezioni ai fatti, Trotzki rimase fedele a quei principi affermatisi durante l’epoca eroica, e che non erano più sostenibili nel momento in cui bisognava applicarli ai problemi sollevati dalla vita quotidiana. Trotzki se ne intende, anche il suo libro lo dimostra, di trascinare le masse in momenti di grande eccitazione. Nelle ore gravi egli seppe certamente scatenare immensi entusiasmi. Quello dì cui non fu però capace fu di “incanalare” questo entusiasmo, di utilizzarlo per la ricostruzione di un grande Stato. Di questo fu invece capace Stalin.

Trotzki è uno scrittore nato. Le sue amorevoli descrizioni dell’attività letteraria sono scorrevoli e gli credo sulla parola quando dice: “Un libro ben scritto, in cui si trovano pensieri nuovi, ed una buona penna, con la quale è possibile comunicare i propri pensieri ad altri, furono sempre e sono tuttora per me i prodotti culturali più preziosi e fidati”. La tragedia dì Trotzki consiste nel fatto di non essersi accontentato dì essere un grande scrittore. Questa insaziabilità lo condusse ad essere un dottrinario litigioso per cui molte persone, di fronte al male che fece o volle fare, dimenticarono i suoi meriti.

Conosco bene questo tipo di scrittore e rivoluzionario sebbene soltanto in proporzioni ridotte. Certi capi della rivoluzione tedesca, quali Kurt Eisner e Gustavo Landauer, hanno molto di comune con Trotzki, in misura naturalmente molto minore. Il rigido sostenimento di un dogma, l’incapacità di adattarsi alle mutate condizioni, in breve la mancanza di psicologia politica, resero questi retorici e dottrinari solo per breve tempo adatti alla vita politica. Per là maggior pane della loro vita furono buoni scrittori, non politici. Non seppero trovare la via verso i1 popolo. Conoscevano troppo poco la psicologia popolare e di massa. Si sentivano legati alla massa, ma questa non si sentiva legata a loro.

Il conflitto fra Trotzki e Stalin si basa certamente su divergenze d’opinione nei problemi fondamentali, ma queste divergenze hanno origine da un contrasto più profondo. Fu il carattere dei due uomini a farli giungere ad opinioni opposte sui problemi importanti della rivoluzione russa, della nazionalità, dei contadini e sul problema se il socialismo possa vivere in un solo Paese. Stalin era del parere che fosse possibile creare un totale e reale socialismo anche senza rivoluzione mondiale, e afferma anzi che, proteggendo gli interessi nazionali dei singoli popoli sovietici il socialismo può essere creato in un solo Paese; egli era del parere che il contadino russo portava in sé le possibilità del socialismo. Trotzki lo contestava. Egli riteneva premessa necessaria a questa rivoluzione, quella mondiale; egli si atteneva rigidamente alla dottrina marxista dell’internazionalismo assoluto, era per la tattica della “rivoluzione permanente”, e dimostrò con grande spreco di logica l’esattezza del verbo marxista sul fatto che la costruzione del socialismo in un solo Paese era impossibile.

Più tardi però, nel 1935 , tutto il mondo riconobbe che il socialismo esisteva in un solo Paese e che inoltre erano stati creati i mezzi militari per difendere tale istituzione contro ogni possibile nemico. Che cosa poteva fare Trotzki? Poteva tacere. Poteva dichiararsi vinto e riconoscere di aver sbagliato. Poteva riconciliarsi con Stalin. Non fu capace di vincersi. L’uomo che aveva visto quello che gli altri non avevano veduto, non vide ciò che era evidente anche a un bambino. L’alimentazione bastava, le macchine funzionavano, le materie prime venivano prodotte in quantità mai vista, il Paese fu elettrificato e motorizzato. Trotzki non lo volle riconoscere.

Egli dichiarò che proprio per il fatto che tutto questo era stato raggiunto in così breve tempo, il tempo febbrile della prima fase della ricostruzione, essa chiudeva in sé la propria fragilità.

L’Unione Sovietica, lo “Stato staliniano”, come egli la chiamava, doveva, a lungo andare, precipitare da sé e sarebbe precipitata proprio nel momento in cui le potenze fasciste l’avrebbero aggredita. E Trotzki diede in sfoghi smisurati di odio contro l’uomo nel cui nome la ricostruzione era stata compiuta. Cerchiamo ora di immedesimarci in Stalin. Egli si era occupato molto presto delle questioni la cui soluzione non era impellente durante od immediatamente dopo la guerra. Già nel 1913 Lenin aveva scritto a Gorki:

“Abbiamo ora un magnifico Georgiano che lavora ad un lungo articolo sulla questione nazionale, questione di cui bisognerebbe occuparsi seriamente “.

Stalin se ne occupò. Ebbe delle idee. Si affermò come organizzatore. Ma Stalin non è una persona affascinante, egli rimase in seconda linea vicino a Trotzki, abbagliante ed indaffarato. Trotzki è un buon oratore, probabilmente il migliore fra i viventi egli sa trascinare. Stalin parla, come già dissi, con un certo umorismo, ma è lungo e monotono. La popolarità che l’altro si acquistò di colpo, egli dovette conquistarsela lentamente. Egli si regge unicamente sulla sua opera.

La brillantezza, non sempre autentica, di Trotzki rese quindi per lunghi anni meno visibile le qualità più solide di Stalin. Ma quando venne il tempo in cui le idee di Trotzki incominciarono ad aver un suono falso e a non corrispondere più allo scopo, fu Stalin che se ne avvide per primo e per primo lo disse. Già nel dicembre 1924 egli si era convinto che, in contrasto con la teoria dominante, la costituzione di una società interamente socialista in un solo Paese era possibile e, conseguentemente in modo ancora più chiaro di quello usato da Lenin e con una formula molto più severa, egli indicò sin d’allora la strada da percorrere: incrementare l’industrializzazione del Paese e contemporaneamente riunire in società i contadini. Egli dichiarò senza possibilità d’equivoco ciò che fino allora era stato negato, e cioè che, con una giusta politica di partito, la maggior parte dei contadini russi avrebbe potuto venire inserita nella società socialista, ed egli lo dimostrò in modo schietto, asciutto, inconfutabile. Trotzki, con la sua abbagliante arte oratoria, confutò in maniera stringente gli inconfutabili argomenti di Stalin. Questi sapeva che in realtà i suoi argomenti erano inconfutabili, ma dovette vedere come molta gente avesse fede nelle brillanti ma false confutazioni di Trotzki. Stalin non si accontentò di vedere e dire quello che era giusto. Egli lavorò, percorse la strada giusta. Riunì i contadini in società, industrializzò, lavorò intorno al socialismo nell’Unione Sovietica e lo costruì. La sua realtà vinse l’inconfutabile teoria di Trotzki. “Victrix causa diis placuit sed victa Catoni” Trotzki non volle ammettere di essere stato confutato. Tenne discorsi infiammati, scrisse articoli abbaglianti, opuscoli; libri, spiegò che la realtà di Stalin era solo apparenza, dato che non si adattava alle sue teorie. Trotzki disturbava. Il congresso del partito si dichiarò contro di lui e finalmente lo si mandò in esilio, fuori del Paese.

Il lavoro di Stalin prosperava. Si produsse carbone, ferro e minerali, si costruirono officine elettriche, l’industria pesante non restò indietro a quella di altri Paesi, si costruirono città, i salari aumentarono, furono vinte le resistenze piccolo-borghesi dei contadini, i loro beni comuni diedero frutto cd in sempre maggior numero entrarono nelle aziende collettive.

Se Lenin era stato il Cesare dell’Unione Sovietica, Stalin diventò il suo Augusto, il suo “ampliatore” sotto tutti i rapporti. Il lavoro costruttivo di Stalin cresceva continuamente. Ma Stalin dovette constatare che esistevano pur sempre persone che non volevano credere a questo lavoro visibile e tangibile, che credevano invece di più alle tesi di Trorzki che non all’evidenza. Anzi, proprio fra gli uomini di cui Stalin era amico e che aveva chiamato ad occupare elevati posti, ve ne furono alcuni che credettero di più alle parole di Trotzki che non all’opera di Stalin. Essi ostacolarono questo lavoro, fecero opposizione, sabotarono. Furono chiamati a rendere conto del loro operato, la loro colpa venne comprovata, Stalin li graziò e li chiamò di nuovo ad occupare posti importanti.

Che cosa dovette pensare Stalin, quando sperimentò che questi suoi colleghi ed amici, nonostante la palese riuscita del suo lavoro, aderivano ancora al suo nemico Trotzki, erano segretamente in relazione con lui e tentavano di sabotare il suo lavoro, lo “Stato staliniano”, per far tornare il loro vecchio condottiero nel Paese.

Quando vidi Stalin, era finito il processo contro il primo gruppo di trotzkisti, fra cui Zinoviev e Kamenev; gli accusati erano stati condannati e fucilati ed era in corso l’istruttoria contro il secondo gruppo di trotzkisti, fra i quali Pjatakov, Radek, Bucarin e Rikov; si sapeva solo vagamente di che cosa questi ultimi erano accusati e non si sapeva ancora se e contro quali di essi sarebbe stato istruito il processo.

In questo intervallo, cioè fra l’uno e l’altro processo, vidi Stalin. Sulle fotografie Stalin sembra alto, largo e maestoso. In realtà è piuttosto piccolo ed esile; nelle vaste sale del Cremlino dove lo vidi, sembrava sperduto.Stalin parla lentamente, con voce piana ed un poco rauca.Non gli piace il dialogo con brevi domande, risposte, interruzioni, ma preferisce infilare periodi lenti e ponderati. Egli parla spesso come se dettasse. Mentre parla va su e giù, si dirige poi improvvisamente verso uno dei presenti, un dito della bella mano puntato contro di lui. Oppure, mentre forma una delle sue frasi pensate, disegna arabeschi e figure su un foglio di carta con una matita rossoblù.

Non mi era stato comunicato su quali argomenti dovessi parlare con Stalin. Non mi ero preparato alcuno schema, desideravo lasciare all’impressione dell’uomo e dell’ora la scelta dell’argomento. Temevo piuttosto che ne potesse risultare una di quelle conversazioni più o meno ufficiali, come Stalin fece con due o tre scrittori occidentali. Infatti in un primo momento il colloquio prese un simile andamento. Si parlò della funzione dello scrittore nella società socialista, dell’effetto rivoluzionario spesso ottenuto anche da scrittori reazionari, quale Gogol ad esempio, dell’appartenenza o meno dell’intellettuale ad una classe e della libertà di parola e di stampa nell’Unione Sovietica. Stalin fu in un primo tempo reticente e stette sulle generali.

Gradatamente però si accalorò e presto riconobbi che potevo parlare liberamente con quell’uomo. Parlai francamente ed egli pure rispose francamente.

Stalin parla senza ornamenti e sa anche esprimere semplicemente pensieri complicati. Spesso parla troppo semplicemente; come un uomo abituato a formulare i suoi pensieri in modo da essere compreso da Mosca a Vladivostok. Non sarà spiritoso, ma ha certamente il senso dell’umorismo; qualche volta il suo umorismo diventa aspro. Ogni tanto ride di un riso lento e scaltro. Egli conosce a fondo diverse materie e cita, non preparato, nomi, date e fatti a memoria. Si parlò di libertà di stampa, di democrazia e, come già ebbi a dire, della adorazione della sua persona. Soltanto all’inizio della conversazione Stalin si espresse in termini generali e fece uso di certe locuzioni stereotipate del vocabolario del partito. Successivamente dal capo di partito emerse una personalità non priva talvolta dì contraddizione, ma sempre avveduta e riflessiva. Egli si eccitò quando parlammo dei processi dei trotzkisti! Parlò diffusamente delle accuse contro Pjatakov e Radek, argomento che allora non era ancora noto. Parlò del panico in cui persone incapaci di pensare seriamente erano gettate dal pericolo fascista. Feci nuovamente notare l’effetto negativo prodotto all’estero dal procedimento troppo sbrigativo del processo contro Zinoviev, anche fra i simpatizzanti. Stalin mise un pò in ridicolo coloro che desideravano documenti scritti prima di decidersi a credere ad un tradimento; congiurati incalliti, secondo lui, hanno raramente l’abitudine di lasciare in giro i documenti. Infine egli parlò con amarezza e commozione di Radek, lo scrittore, il più popolare degli uomini del secondo processo trotzkista.

Egli parlò delle sue relazioni amichevoli con questo uomo. “Voi Ebrei” – egli disse – “avete creato una leggenda che è eternamente vera, quella di Giuda “, ed era strano sentire quest’uomo, altrimenti così asciutto e logico, esprimere queste, semplici parole patetiche. Egli raccontò di una lunga lettera che Radek gli aveva scritto e nella quale affermava la sua innocenza con molte cattive ragioni. E disse che il giorno seguente, sotto il peso di indizi e testimonianze, Radek aveva confessato.

Stalin odia Leone Trotzki? Per forza lo deve odiare. Feci già notare che a separare i due concorre non solo la diversità di carattere, ma anche quella di opinione. E’ difficile pensare a contrasti più acuti di quelli esistenti fra il discorsivo Trotzki con i suoi rapidi pensieri ed il semplice Stalin sempre riservato, che formula lentamente e tenacemente i suoi pensieri. Il poeta austriaco Grillparzer dice che “le idee, le trovate non sono pensieri. Il pensiero conosce il limite; la trovata lo trascura e, nell’esecuzione, non sa spicciarsi “. Leone Trotzki, lo scrittore, ha i pensieri fulminei spesso errati. Josif Stalin ha le opinioni lente, faticosamente elaborate, ma fondamentalmente esatte. Trotzki è un abbagliante fenomeno isolato, Stalin è il tipo di contadino ed operaio assurto a, genio, predestinato alla vittoria, perché in lui è riunita la forza di entrambe le classi. Trotzki è un razzo che si spegne rapidamente, Stalin il fuoco duraturo che riscalda.

Se un drammaturgo contrapponesse due uomini di carattere cosi antitetico, verrebbe accusato di premeditazione e di ricerca d’effetto. Trotzki è duttile nel discorso e nel gesto, si esprime senza difficoltà in più lingue, è orgoglioso, cangiante, spiritoso. Stalin è piuttosto pesante, ha dovuto conquistarsi la sua istruzione tenacemente in un seminario di preti. Non è duttile. Ma è esattamente informato sulle necessità dei suoi contadini ed operai, egli appartiene a loro, non ebbe mai bisogno, come Trotzki, che proviene da un’altra classe, di aprirsi una strada verso di loro. A Stalin non deve essere ripugnante la mobilità, la ambiguità e l’orgoglio di Trotzki, come a quest’ultimo la durezza e l’angolosità dì Stalin. Stalin ha davanti a sé un compito immane, che richiede tutta la forza anche di un uomo straordinariamente forte e deve impiegare una grandissima parte della sua forza per neutralizzare le dannose conseguenze dei magnifici e pericolosi pensieri di Trotzki. “Il passato non bolscevico di Trotzki non è un caso”, dice il testamento di Lenin. Questo fatto è certamente sempre presente a Stalin ed egli vede in Trotzki un uomo al quale la grande duttilità permette sempre di ritornare al suo passato non bolscevico con intima convinzione. Anzi, Stalin deve odiare Trotzki in primo luogo perché è sempre in contraddizione con lui ed in secondo luogo perché Trotzki mediante tutto quello che dice, scrive, fa, anzi con la sua stessa esistenza, minaccia il lavoro di Stalin.

I rapporti fra Stalin e Trotzki non si esauriscono però pensando soltanto alla loro rivalità, alla diversità del loro carattere e delle loro opinioni, ed al loro odio. Il grande organizzatore Stalin che ha intuito che i contadini russi sono suscettibili di essere socializzati, questo grande calcolatore e psicologo Stalin tenta anche di utilizzare per i suoi fini le capacità dell’avversario che non sottovaluta affatto. Egli si intrattenuto con molte persone che spiritualmente sono creature di Trotzki. Si dice che egli non abbia riguardi; ma da molti anni lotta per guadagnare alla sua causa dei capaci trozkisti invece di annientarli, e la tenace fatica, con la quale egli tenta di utilizzarli per il suo lavoro, ha qualche cosa di commovente.

VII CHIAREZZE E OSCURITÀ DEI PROCESSI TROTZKISTI

D’altra parte, Stalin si decise infine di portare ancora una volta in tribunale questi suoi nemici, i trotzkisti, accusandoli di alto tradimento, spionaggio, sabotaggio ed altre attività disfattiste, come pure della preparazione di atti terroristici. In processi che sollevarono il mondo contro la Unione Sovietica per la loro “primitività ed arbitrarietà”, i nemici trotzkisti di Stalin furono umiliati fino all’impossibile. Vennero condannati e fucilati.

È puerile attribuire questi processi, quello di Zinoviev e quello di Radek, semplicemente alla sete di dominio e di vendetta di Stalin. Giuseppe Stalin, che ha compiuto un enorme lavoro contro la resistenza di tutto il mondo, quale la ricostruzione economica dell’Unione Sovietica, il marxista Stalin non pregiudica la politica estera del suo Paese, ed insieme ad essa una parte importante del suo lavoro, per motivi personali.

Conosco il processo contro Zinoviev e Kamenev dai rapporti della stampa e dai racconti di testimoni oculari; ho assistito personalmente al processo contro Pjatalcov e Radek. Ho quindi partecipato, nell’atmosfera dell’Europa occidentale, al primo processo, ed in quella di Mosca, al secondo. La differenza fra l’Unione Sovietica ed Occidente diventa comprensibile quando si assiste ad uno dei processi nell’aria europea ed all’altro nell’aria moscovita. Parecchi miei amici, persone nient’affatto stupide, trovano questi processi, dal principio alla fine, per contenuto e forma, tragicomici, barbarici, in mala fede e mostruosi. Tutta una serie di uomini che prima erano amici della Unione Sovietica sono diventati suoi nemici in seguito a questi processi. Alcuni, che nell’ordinamento della società dell’Unione avevano visto l’ideale dell’umanesimo socialista, erano come annichiliti; le pallottole che avevano colpito Zinoviev e Kamenev non avevano ucciso soltanto questi, ma anche tutto il nuovo mondo. Anche a me, fin che rimasi nell’Europa occidentale, le accuse del processo di Zinoviev mi sembrarono fondamentalmente estorte con mezzi misteriosi, tutto il procedimento mi parve una commedia messa in scena con arte consumata, strana ed orrenda.

Quando a Mosca assistetti al secondo processo, quando vidi ed udii Pjatakov, Radek ed i suoi amici, l’impressione di quanto questi accusati dissero ed il modo con cui lo dissero fece sciogliere questi miei sospetti come la neve al sole. Se quello che dissero è falso o predisposto, allora non so più che cosa è la verità. Presi quindi i verbali del processo, meditai su quanto avevo visto e sentito, e considerai, ancora una volta, il pro e il contro della veridicità dell’accusa.

In fondo, i processi si rivolgevano in primo luogo contro il grande accusato assente, Trotzki, e l’obbiezione principale consisteva nella presunta falsità di quanto affermava l’accusa a Trotzki. “Questo Trotzki” si indispettirono gli oppositori, ” uno dei fondatori dello Stato sovietico, amico di Lenin, avrebbe dato egli stesso direttive per sabotare la ricostruzione dello Stato alla cui fondazione egli ha contribuito, per scatenare la guerra contro di esso, per prepararne la sconfitta nella prossima guerra? E’ mai possibile pensare una cosa simile?” Piano. Da un esame approfondito risulta che il contegno di cui Trotzki è accusato non solo non è falso e inverosimile, ma è anche l’unico che corrisponde alla sua situazione interna. Ricordiamoci che questo Trotzki, condannato all’inattività, era costretto a stare a vedere oziosamente come il grandioso esperimento iniziato da lui e Lenin si trasformasse in una specie di gigantesco orticello piccolo-borghese.

Poiché a lui, che voleva compenetrare il mondo di socialismo, lo “Stato staliniano” parve, come disse e scrisse, una puerile caricatura di quanto originariamente aveva ideato. Si aggiunga a questo la sua profonda e personale antipatia per Stalin, che gli aveva costantemente guastato tutto e finalmente lo aveva scacciato. Trotzki ha espresso innumerevoli volte il suo odio sconfinato ed il suo disprezzo per Stalin. Quello che fece con la parola e lo scritto non può anche averlo fatto con l’azione? È proprio tanto “impossibile”, che egli, che si riteneva il solo uomo adatto quale capo della rivoluzione, non adoperasse qualsiasi mezzo per far precipitare dal trono usurpato il “falso Messia” con piccole menzogne? A me sembra possibilissimo.

E mi sembra possibile che un uomo accecato dall’odio, che si rifiutò di riconoscere quello che tutti riconobbero, cioè la compiuta ricostruzione economica dell’Unione e la potenza del suo esercito, sia passato sopra all’inadeguatezza dei mezzi ed abbia scelto una via notoriamente falsa. Trotzki è coraggioso ed impulsivo, un grande giocatore, tutta la sua vita è una catena di avventure, di imprese pazzesche che spesso gli riuscirono a meraviglia. L’ottimista Trotzki credette sempre dì poter utilizzare la mala sorte per i suoi scopi e di poterla eliminare o rendere innocua. Se Alcibiade passò dalla parte dei Persiani, perché Trotzki non poteva passare da quella dei fascisti? Trotzki non è mai stato un patriota russo, lo “Stato staliniano” gli era odioso, egli si preoccupava della rivoluzione mondiale. Raccogliendo quanto l’esiliato Trotzki ha fatto contro Stalin ed il suo Stato, si ottiene un volume pieno di odio, rabbia, ironia e disprezzo. Se fece tutto questo durante gli anni d’esilio, quale deve essere ora lo scopo principale di Trotzki? Ritornare nel Paese ad ogni costo, per riavere il potere.

Il Coriolano di Shakespeare, quando si reca dai Volsci, nemici di Roma, parla dei falsi amici che lo hanno piantato in asso. “Essi tolleravano ” egli dice ai nemici di Roma, “di vedermi fischiato fuori di Roma dagli schiavi. Questa scelleratezza mi conduce al vostro focolare. L’odio per i miei nemici mi conduce qui.” In questo modo, Shakespeare giudica la possibilità che Trotzki abbia patteggiato con i fascisti. Ed Emil Ludwig riferisce una conversazione avuta con Trotzki nell’isola Prinkipo presso Costantinopoli, poco tempo dopo il suo esilio. Emil Ludwig ha pubblicato questa conversazione nel 1931 nel suo libro Doni della vita e ciò che fin da allora Trotzki ha detto, nel 1931, dovrebbe far meditare tutti coloro che trovarono sciocca ed assurda l’accusa contro di lui. ” Trotzki dice” riferisce Ludwig e cito testualmente, ” che il suo partito è disperso ovunque e la sua forza è quindi difficilmente calcolabile. ” ” E quando potrebbe unirsi?” “In seguito, ad esempio, ad una guerra o ad un nuovo intervento dell’Europa, che potrebbe prendere coraggio dalla debolezza del Governo.” “Ma allora non converrebbe partire, anche se vi lasciassero rientrare in Russia “Pausa di disprezzo. ” Oh! Ma si troverebbero ben altre vie! ” Ora anche la signora Trotzki sorride. Cosi giudica Trotzki sulla possibilità di aver patteggiato con i fascisti. Per quanto riguarda gli uomini implicati in questo secondo processo, e cioè Pjatakov, Sokolnikov e Radek, si giudica improbabile che uomini della loro posizione ed influenza abbiano potuto sabotare lo Stato, al quale dovevano le loro posizioni e la loro attività, od aderito ai piani posti a loro carico dall’accusa. A me sembra errato non veder altro in queste persone che uomini di posizione ed influenti. Pjatakov e Sokolnikov non erano soltanto alti funzionari e Radek non solo redattore capo delle Izvestia ed uno dei consiglieri intimi di Stalin. La maggior parte degli accusati erano in primo luogo cospiratori e rivoluzionari; per tutta la vita erano stati sovversivi appassionati ed oppositori, erano nati per questo. Tutto quanto avevano ottenuto, era stato raggiunto contro le predizioni degli “intelligenti”, con coraggio, amore per l’avventura ed ottimismo. In pari tempo credevano in Trotzki la cui forza suggestiva non può mai essere valutata abbastanza; insieme al loro maestro vedevano nello “Stato staliniano” una caricatura di quanto avevano voluto creare ed il loro scopo principale era quello di correggere questa caricatura nello Stato da loro desiderato.

Non si dimentichino nemmeno gl’interessi personali che gli accusati potevano avere in un rivolgimento. L’ambizione e la sete di potere di nessuno dì questi uomini era stata soddisfatta, avevano posizioni ed onori, ma nessuno di loro aveva uno di quei posti che essi credevano spettasse loro, nessuno aveva un posto nell’Ufficio Politico.

Erano ritornati in grazia, ma erano pur sempre stati processati come trotzkisti, e non avevano più nessuna prospettiva di occupare i primi posti. In un certo senso erano tutti degradati e nessuno “è più pericoloso dell’ufficiale, al quale siano state strappate le spalline” dice Radek, e lo deve sapere.

Non meno violentemente dell’accusa viene attaccato lo svolgimento del processo. Se c’erano documenti e testimoni, chiedono dubbiosi, perché i documenti furono tenuti nel cassetto, i testimoni dietro le quinte e ci si accontentò di confessioni incredibili?

Giusto, rispondono i Sovietici, nel processo principale abbiamo mostrato in un certo senso soltanto il distillato, il risultato preparato dall’istruttoria. Il materiale dimostrativo è stato espletato prima e presentato agli accusati, nel processo principale ci siamo accontentati delle loro confessioni. Chi se ne scandalizza deve pensare che il processo venne celebrato davanti ad un tribunale militare, e che in primo luogo era un processo politico. Si trattava della purificazione dell’atmosfera politica interna. “A noi interessava che tutti, da Minsk a Vladivostok, capissero che cosa era accaduto. Perciò abbiamo reso tutto il più semplice e trasparente possibile. Indizi particolareggiati, documenti, testimoni possono interessare i giuristi, i criminalisti, gli storici; i nostri cittadini sovietici si sarebbero soltanto confusi.

Essi vengono meglio illuminati dalle chiare confessioni che non dagli indizi, anche se messi insieme nel modo più ingegnoso. Abbiamo fatto questo processo non per i penalisti stranieri, ma per il nostro popolo.” Siccome l’efficacia delle confessioni, la loro precisione e completezza non può essere negata, i dubbiosi adducono le ipotesi più assurde sui metodi con i quali le confessioni possono essere state estorte. La prima e più semplice supposizione è naturalmente quella che le confessioni siano state ottenute dagli accusati mediante torture e la minaccia di torture ancora più terribili. Ma questa accusa venne confutata dalla manifesta freschezza e vitalità degli accusati, dal loro aspetto fisico e morale. Gli scettici dovettero quindi cercare altre motivazioni per spiegare le confessioni “impossibili”. Essi annunciarono che agli accusati erano stati somministrati veleni di ogni specie, che erano stati ipnotizzati e che ad essi erano state somministrate anche delle droghe. Ora nessuno è finora riuscito a produrre un veleno tanto efficace e quello scienziato che ci fosse riuscito non si sarebbe accontentato di essere la mano misteriosa degli organi di polizia, egli avrebbe applicato i suoi metodi probabilmente per aumentare il suo prestigio scientifico. Ma gli oppositori del procedimento si attenevano più volentieri alle ipotesi inverosimili piuttosto che arrendersi all’evidenza: cioè che gli accusati fossero convinti e che le loro confessioni si fondassero sulla verità.

Se si parla ai Sovietici di tali ipotesi, essi si stringono nelle spalle. Perché, dicono, se volessimo falsare la verità, dovremmo ricorrere a mezzi cosi difficili e pericolosi quali sono le confessioni falsificate?

Non sarebbe allora più semplice falsificare dei documenti? Non credete che potremmo, invece di lasciare fare da Trotzki discorsi di alto tradimento attraverso Pjatakov e Radek, produrre lettere di alto tradimento, documenti che provino molto più direttamente le sue relazioni col fascismo e Avete visto e sentito gli accusati: avete avuto l’impressione che le loro confessioni siano state estorte?

Non posso dire di aver ricevuto questa impressione. Gli uomini processati non erano affatto persone torturate e disperate davanti al loro boia. Non bisogna, naturalmente, pensare che questo processo abbia avuto qualche cosa di fittizio, di artificioso od anche soltanto di solenne o patetico. L’aula in cui ebbe luogo il processo non era molto vasta, poteva contenere circa trecentocinquanta persone. I giudici, l’avvocato dello Stato, gli accusati ed i difensori sedevano su una bassa tribuna con scale per salirvi, non vi erano barriere fra tribunale e pubblico. E nemmeno c’era qualche cosa che ricordasse il banco degli accusati; la barriera che separava gli accusati dal pubblico sembrava piuttosto il parapetto di un palco.

Gli accusati erano persone ben curate e ben vestite, dai gesti disinvolti e naturali, bevevano tè, avevano giornali in tasca e guardavano molto il pubblico. Tutto l’insieme non faceva l’impressione di un penosissimo processo, ma piuttosto di una discussione, condotta su un tono di conversazione, da uomini colti, che si occupavano di stabilire la verità e di giudicare quanto era successo.

Si aveva, anzi, l’impressione che accusati, pubblico ministero e giudici avessero lo stesso interesse, starei per dire, puramente sportivo di chiarire perfettamente gli avvenimenti. Se un regista avesse dovuto disporre queste scene del processo sarebbero occorse prove annose, per far si che gli accusati arrivassero a correggersi vicendevolmente in particolari e che la loro commozione si esprimesse in modo tanto perfetto. In breve, gli ipnotizzatori, i propinatori di veleni ed i funzionari della giustizia, che prepararono gli accusati, astrazion fatta dalle loro stupefacenti capacità, avrebbero dovuto essere anche degli ottimi registi e psicologi.

L’obiettività e la nudità con la quale questi uomini spiegavano ed esponevano le loro azioni, immediatamente prima di una morte quasi sicura, erano irreali e paurose. Peccato che le leggi dell’Unione Sovietica proibiscano di fare fotografie ed incidere dischi nelle sale dei tribunali. Se si fosse potuto presentare all’opinione pubblica mondiale non solo quello che hanno detto gli accusati, ma anche il modo con cui è stato detto, il tono di voce, i loro visi, credo che gli increduli sarebbero pochi.

Tutti confessarono, ma ognuno lo fece in modo diverso: l’uno con tono di voce cinico, il secondo con onestà militare, il terzo con resistenza interna, torcendosi, il quarto come uno scolaro che si pente, il quinto con fare cattedratico. Ognuno però col tono, l’espressione ed il gesto della verità. Non dimenticherò mai in che modo Giorgio Pjatakov stava davanti al microfono; era un signore di media altezza ed età, un pò calvo, con una barbetta a punta biondo rossiccia fuori moda. Tranquillo e diligente, egli spiegava come aveva fatto a sabotare le industrie da lui dipendenti. Esponendo ed indicando col dito, faceva l’impressione di un insegnante universitario, un professore di storia, che tiene una conferenza sulla vita e le gesta di un uomo morto da molto tempo, di nome Pjatakov, e che ha interesse a spiegare tutto fin nei minimi particolari, affinché i suoi ascoltatori e studenti capiscano bene.

Mi sarà difficile dimenticare anche lo scrittore Karl Radek. Lo ricorderò per il modo come era seduto con la sua giacca marrone, il viso brutto e scarno inquadrato in una barba castana fuori moda, per il modo come guardava il pubblico, a lui noto in gran parte, o come guardava gli altri accusati, spesso con un sorriso pacato, spesso volutamente ironico, oppure per il modo con cui cingeva le spalle di altri accusati che entravano, con gesto leggero e affettuoso; parlando posava volentieri, prendeva un pò in giro gli altri accusati e metteva in evidenza la sua superiorità artificiosa, era arrogante, scettico e letterario. Con un gesto brusco sospinse Pjatakov dal microfono per prendere il suo posto; batteva spesso con i giornali sulla balaustra, oppure, prendendo il suo bicchiere dì tè, vi gettava una fetta di limone, lo mescolava e, mentre diceva le cose più mostruose, beveva a piccoli sorsi. Ma non posava più quando fece la sua arringa finale nella quale disse la ragione per cui aveva confessato e questa confessione, per quanto fatta con disinvoltura e nonostante la sua forma perfetta, fece l’effetto della rivelazione di un uomo in pericolo, e fu commovente. Il gesto più spaventoso ed anche quello più difficilmente spiegabile di Radek fu quello con cui abbandonò la sala. Erano circa le quattro del mattino e tutti, giudici, accusati e pubblico, erano estenuati. Dei diciassette accusati, tredici, fra i quali anche intimi amici di Radek, erano stati condannati a morte, mentre egli ed altri tre erano stati condannati soltanto alla prigione. Il giudice aveva letto la sentenza, noi tutti l’avevamo ascoltata in piedi, accusati e pubblico, immobili, in profondo silenzio e, subito dopo la lettura, i giudici si erano ritirati. Vennero i soldati e si diressero prima ai quattro che non erano stati condannati a morte. Uno dei soldati pose la mano sulla spalla di Radek, ordinandogli evidentemente di seguirlo. E Radek lo seguì. Si voltò, alzò la mano per salutare, alzò impercettibilmente le spalle, ammiccò agli altri, ai condannati a morte, i suoi amici, e sorrise. Sì, sorrise.

Sarà anche difficile dimenticare la particolareggiata e faticosa esposizione dell’ingegnere Stroilov, nella quale spiegò come divenne membro dell’organizzazione trotzkista, come si agitò e cercò di uscirne; ma fu trattenuto per quello che aveva fatto un tempo e non riuscì più a districarsi.

Indimenticabile, inoltre, quel calzolaio ebreo con la barba da rabbino, Drobnis, distintosi durante la guerra civile, il quale, dopo sei anni di prigionia zarista, fu condannato tre volte a morte dalle guardie bianche, sfuggì come per miracolo a tre fucilazioni ed ora annaspava davanti al tribunale e si torceva quando doveva confessare che mediante esplosioni dolose non aveva soltanto provocato scientemente danni materiali, ma anche la morte di operai. Terribile fu anche l’ingegnere Norkin, il quale con la sua “ultima parola” maledisse Trotzki, gli gridò il suo “disprezzo smisurato ed il suo odio”; era pallido di eccitazione e subito dopo dovette abbandonare la sala perché si era sentito male. Questa fu la prima ed ultima volta durante tutto il processo che si parlò ad alta voce; del resto, tutti: giudici, pubblico ministero ed accusati parlarono sempre tranquillamente, senza enfasi e mai nessuno alzò la voce.

Dato che gli scettici non si vogliono assolutamente adattare all’ipotesi che l’accusa possa fondarsi sulla verità, essi si basano, astrazion fatta dalle obbiezioni già citate, sul fatto che il comportamento degli accusati davanti ai giudici non può essere spiegato psicologicamente. Perché, si chiedono essi, gli accusati gareggiano in confessioni invece di contestare la loro colpa? E che specie di confessioni! Essi si dipingono come infami traditori. Perché, anche se sono trascinati, non tentano di addurre circostanze attenuanti, ma si caricano sempre più di colpe? Perché, dato che credono tuttora alle teorie di Troztki, non si confessano seguaci del loro capo e delle sue teorie? Perché ora non si vantano, dato che parlano per l’ultima volta alle masse, di queste loro azioni, che pur dovettero trovare degne di lode? Si può anche pensare che su diciassette persone una si umili, o due od anche quattro. Ma tutti?

I Sovietici rispondono che la confessione è dovuta ad una ragione molto semplice. Perché durante l’istruttoria sono stati convinti con testimonianze e documenti che negare era inutile. Che tutti abbiano confessato si spiega col fatto che non tutti i trotzkisti implicati nel complotto erano stati arrestati, ma soltanto quelli che erano maggiormente convinti. Che le confessioni suonino patetiche è per lo più dovuto alla traduzione. L’accento russo è difficile da cogliere; il russo, tradotto, fa un’impressione superlativa, sentimentale e strana. Questo è vero. Ho sentito un vigile dire al mio autista: “Vogliate avere la compiacenza, compagno, di rispettare i regolamenti”. Un simile modo di esprimersi è strano. E meno strano se si traduce il senso e non la lettera della frase: “Stai attento ai regolamenti”. Le traduzioni dei verbali del processo assomigliano però più al ” rispettare i regolamenti “- che allo – “Stai attento!”.

Devo confessare che, sebbene il processo mi avesse convinto della colpa degli accusati, il loro comportamento davanti al tribunale, nonostante gli argomenti dei Sovietici non mi era del tutto chiaro. Subito dopo il processo esposi, in una dichiarazione per la stampa sovietica, la mia impressione: “Le cause ultime di ciò che hanno fatto gli accusati, specialmente il loro comportamento davanti al tribunale, non sono del tutto chiari per gli occidentali. Le azioni della maggior parte di costoro possono aver meritato la morte: ma con invettive e ribellioni, per quanto comprensibili, non si spiega il carattere di questi uomini. Spiegare la loro colpa ed espiazione a degli occidentali, sarebbe compito di un grande poeta sovietico”. Ciò non vuol naturalmente dire che possa dubitare del processo e dei suoi risultati. Quando mi si chiede la mia opinione, posso, sull’esempio dello scrittore Ernst Bloch, citare Socrate, il quale, interrogato su alcune oscurità di Eraclito, rispose: “Quello che ho capito è eccellente. Da ciò deduco che anche quello che non ho capito, sia pure eccellente”.

I Sovietici non concepiscono una simile incomprensione. Dopo la fine del processo, riferendosi alla mia dichiarazione sopra citata, uno scrittore moscovita disse durante una riunione: “Feuchtwanger non capisce le ragioni per cui gli accusati hanno confessato. I 250.000 operai che fanno una dimostrazione sulla Piazza Rossa le capiscono”. A me sembra, tuttavia, di essermi occupato ad ottenere maggior comprensione per il processo della maggior parte dei critici occidentali e siccome il poeta sovietico che potrebbe chiarire le cause delle confessioni ancora non esiste, voglio tentare di descrivere come mi immagino il processo psicologico della confessioni.

Il tribunale davanti al quale ebbe luogo il processo può essere considerato opportunamente una specie di tribunale del partito. Gli accusati erano fin dalla giovinezza iscritti al partito. Parecchi fra di loro appartenevano ai dirigenti di esso. E quindi un errore poter pensare che un uomo citato davanti ad un tribunale di partito possa comportarsi come un uomo davanti ad un comune tribunale occidentale. Era più di un semplice lapsus quando Radek si rivolse ai giudici con le parole: “Compagni giudici” – sicché il presidente dovette invitarlo a dire: “Cittadini giudici”. Anche l’accusato si sente ancora legato al partito e non è quindi un caso che il processo sin dall’inizio avesse carattere di discussione, cosa strana per gli occidentali. Giudici, pubblico ministero ed accusati non sembravano soltanto, ma erano effettivamente legati da uno scopo comune. Erano come ingegneri intenti a provare una nuova macchina complicata. Alcuni hanno rovinato un pezzo della macchina, non per malvagità, ma perché volevano ostinatamente provare le proprie teorie sul suo miglioramento. I loro metodi si sono dimostrati falsi, ma la macchina non sta loro meno a cuore degli altri e per questa ragione discutono di comune accordo i loro errori. Ciò che lega è l’interesse per la macchina, l’amore per essa. È questo sentimento fondamentale che permette a giudice ed accusato di collaborare così concordemente, qualcosa di analogo a quanto esiste in Inghilterra fra Governo ed opposizione, per cui il capo dell’opposizione riceve dallo Stato uno stipendio di duemila sterline.

Gli accusati erano seguaci di Trotzki; anche dopo la sua caduta credevano ancora in lui Ma essi vivevano nell’Unione Sovietica e quello che per l’esiliato Trotzki erano cifre lontane e statistiche, per loro era una cosa viva. Di fronte a questa viva contemplazione, il principio di Trotzki che l’istituzione dell’economia socialista in un solo Paese era impossibile, non poteva reggere a lungo andare. Durante il 1935, in base alla crescente prosperità dell’Unione Sovietica, gli accusati dovettero riconoscere che il trotzkismo aveva fatto bancarotta: ” Essi perdettero ” dichiarò Radek, ” la fede nella concezione di Trotzki”. In queste circostanze è logico che le confessioni suonino come un inno forzato al regime staliniano. Gli accusati assomigliano in questo caso al profeta pagano Balaam della Bibbia che se ne va per maledire, ma che, contro la sua volontà, deve benedire.

L’accusato Muralov negò per ben otto mesi prima di risolversi a confessare, il 5 dicembre. ” Sebbene ” disse al processo, ” non ritenessi giuste le direttive di Trotzki riguardo al terrorismo ed al sabotaggio, mi sembrava moralmente inammissibile tradire Trotzki. Ma quando infine gli altri gli voltarono le spalle, chi onestamente e chi falsamente, mi dissi: mi sono battuto attivamente in tre rivoluzioni per l’Unione Sovietica e dozzine di volte la mia vita è stata in pericolo. Non devo ora subordinarmi ai suoi interessi? Oppure devo rimanere con Trotzki e battermi ulteriormente per la sua causa perduta? Allora il mio nome diventerà una bandiera per coloro che ancora militano nelle file della controrivoluzione. Gli altri, che abbandonino onestamente o meno Trotzki, non apparterranno mai agli araldi della controrivoluzione. Solo io devo rimanere un santo? Ciò fu decisivo per me e mi dissi: benissimo, ora me ne vado e proclamo tutta la verità.” La deposizione di Radek su questo punto, in forma molto più attenuata, dice in sostanza la stessa cosa. Le dichiarazioni dei due uomini mi sembrano psicologicamente interessanti, astraendo dal processo. Esse dimostrano, ad esempio, fino a che punto gli uomini possono seguire un altro uomo nella cui superiore intelligenza di capo e nella cui geniale concezione credono e dove è il punto in cui lo abbandonano. I mezzi da avventuriero e da disperato in cui un Trotzki fu costretto a servirsi, dopo che la sua concezione fondamentale si era dirnostrata errata, dovettero spaventare i suoi partigiani. Essi cominciarono a considerare pazzeschi i suoi metodi. Non disertarono prima perché non sapevano come farlo tecnicamente. ” Ci saremmo recati dalla polizia” dichiarò Radek, “se questa non fosse venuta prima da noi “, e ciò è probabile. Alcuni amici degli accusati si erano realmente recati dalla polizia e per questa ragione il complotto venne scoperto.

Le obbiezioni degli scettici sono di per sé giuste. Gente che ha fede nella propria causa, anche se questa è quasi perduta, non tradisce all’ultima ora. Coglie invece l’ultima grande possibilità di parlare in pubblico e l’utilizza per far propaganda per la propria causa. Davanti ai tribunali hitleriani i rivoluzionari dichiarano a centinaia: “Si, ho fatto quello per cui vengo accusato. Mi potete uccidere, ma sono orgoglioso di quanto ho fatto”. Gli scettici hanno quindi il diritto di chiedere: perché nessuno dei troztkisti ha parlato in questo modo e perché nessuno dei trotzkisti ha detto: ” Si, il vostro Stato staliniano è errato. Trotzki ha ragione. Quello che ho fatto è stato bene. Uccidetemi, ma mi assumo la responsabilità di ciò che ho fatto “?

A questa obiezione è però possibile dare una risposta decisiva. Questi trotzkisti non hanno parlato in questo modo, per il semplice fatto che non credono più in Trotzki, perché intimamente non potevano più rispondere di quanto avevano fatto, perché la loro convinzione trotzkista era stata confutata dai fatti, di modo che uomini con gli occhi aperti non potevano più credere ad essi. Che cosa rimaneva loro quindi da fare dopo essersi posti dalla parte sbagliata? Proprio perché erano socialisti convinti, prima della morte non rimaneva loro altro che confessare: il socialismo non può essere realizzato in base alle teorie di Trotzki, ma soltanto seguendo quelle di Stalin. Ma, anche astraendo dai motivi ideologici e prendendo in considerazione soltanto le circostanze esteriori, gli accusati erano quasi obbligati a confessare. Che cosa avrebbero dovuto fare, dopo essere stati convinti da una schiacciante quantità di prove? Erano perduti, con o senza confessione. Confessando, potevano avere un barlume di speranza nella clemenza. In parole povere: non confessando erano perduti al cento per cento e, confessando, al novantanove per cento. Siccome non vi erano ragioni intime che si opponevano alla confessione, perché non farla? Dalle loro parole risulta che questo fatto ebbe un certo peso.

Dei diciassette accusati, dodici pregarono i giudici di considerare la loro confessione una circostanza attenuante al momento di pronunciare la sentenza.

Questa richiesta fu formulata da tutti nella stessa forma e questo fatto faceva in ultimo un effetto terribile e tragicomico. Alla fine, cioè quando parlarono gli ultimi accusati, si aspettava nervosamente questa domanda e quando veniva effettivamente fatta e necessariamente nella stessa forma monotona, gli ascoltatori potevano a mala pena soffocare il riso.

Forse ancora più difficile che rispondere alla domanda:

“Quali furono i moventi degli accusati?” è rispondere a quest’altra: quali ragioni spinsero il Governo a dare tanta pubblicità a questo processo e ad invitarvi la stampa e l’opinione pubblica mondiale? Che cosa se ne riprometteva? Non doveva la manifestazione avere conseguenze penose piuttosto che favorevoli? Il processo Zinoviev aveva fatto una cattivissima impressione all’estero; esso aveva fornito ai nemici un gradito materiale propagandistico e fatto tentennare molti amici. Aveva suscitato dubbi sulla stabilità del regime alla quale prima avevano creduto persino i nemici. Perché danneggiare, con un secondo processo analogo, cosi sventatamente il proprio prestigio?

La ragione, affermano i nemici, consiste nel selvaggio dispotismo di Stalin e nella sua gioia di spargere il terrore. È chiaro: questo Stalin, conscio della sua inferiorità, della sua sete di potere e smisurata sete di vendetta, vuole vendicarsi di tutti coloro che in qualche modo lo offesero ed inoltre di tutti coloro che in un qualche modo possono diventare pericolosi. Simili chiacchiere dimostrano ignoranza dell’anima umana e mancanza di senso critico. Si legga un libro, un discorso di Stalin e si guardi una sua fotografia o si ricordi una disposizione qualsiasi che egli abbia presa per la ricostruzione. Subito risulta chiaramente che questo uomo superiore non può assolutamente aver commesso l’errore di rappresentare una simile commedia con l’aiuto di innumerevoli collaboratori unicamente allo scopo di celebrare una vendetta, la sconfitta dei nemici, con illuminazione di bengala.

Io credo che la soluzione del problema sia più semplice ed in pari tempo più complicata. Si pensi alla risolutezza dell’Unione Sovietica, di proseguire sulla via della democrazia e si pensi, soprattutto, a quella mentalità militare che ho già messo in evidenza parecchie volte.

La crescente democratizzazione, specialmente il progetto della nuova Costituzione, dovette dare ai trotzkisti nuovo vigore, dovette dare loro delle speranze di poter agire più liberamente e di poter condurre la loro agitazione più efficacemente. Il Governo era ben deciso a reprimere sul nascere ogni attività trotzkista. In primo luogo fu l’incombente minaccia di guerra a decidere i dirigenti dell’Unione Sovietica a dare tanta pubblicità a questo processo Prima i trotzkisti erano meno pericolosi, si poteva graziarli e nel peggiore dei casi esiliarli. L’esilio non è però una misura molto efficace; Stalin stesso, esiliato per sei volte e sei volte ritornato, lo sà benissimo. Ora, appena prima della guerra, non era più possibile usare tanta clemenza. Una scissione, una presa di posizione, senza importanza in tempo di pace, può diventare un pericolo incommensurabile in guerra. Dopo l’assassinio di Kirov, nell’Unione Sovietica i trotzkisti vengono giudicati dai tribunali militari. Era un tribunale militare davanti al quale questi uomini comparvero ed era un tribunale militare che li giudicò.

L’Unione Sovietica ha due aspetti. L’aspetto dell’Unione combattente si manifesta con la rigida severità con la quale reprime ogni opposizione. L’aspetto dell’Unione ricostruttrice si manifesta nella democrazia contenuta nella nuova Costituzione. Il fatto che il Congresso in sessione straordinaria abbia votato la nuova Costituzione fra i due processi trotzkisti quello di Zinoviev e quello di Radek, agisce come un simbolo.

VIII AMORE E ODIO

LA violenza con la quale all’estero persino dei simpatizzanti reagirono ai processi contro i trotzkisti, riuscì del tutto incomprensibile ai cittadini sovietici. Ho già parlato della profonda delusione e disperazione di molti che nell’Unione Sovietica avevano visto il compimento del loro sogno democratico, l’ultima salvezza della civiltà prima della rovina e che ora, non potendosi separare dalle loro immaginazioni democratiche, caddero dal settimo cielo in seguito a questi processi ” arbitrari e violenti “.

Per molti questa delusione fu certamente un sincero dolore. Ci sono però anche intellettuali ai quali fu gradita. La violenza con la quale questi intellettuali reagirono ai processi proviene certamente dal fondo dell’anima. Essa deriva dal disagio che provoca in loro la semplice esistenza dell’Unione Sovietica, dal disagio per i problemi davanti ai quali vengono posti da questo nuovo Stato socialista.

Molti intellettuali, persino quelli che ritengono una necessità storica sostituire il sistema capitalista con quello socialista, hanno paura della confusione del periodo di transizione. Essi desiderano sinceramente la vittoria mondiale del socialismo, ma si preoccupano del loro avvenire durante il tempo in cui la grande trasformazione socialista sì compirà.

Dicono di si col cervello, di no col cuore. Teoricamente sono socialisti, ma praticamente il loro comportamento sostiene l’ordinamento capitalista. La sola esistenza dell’Unione Sovietica è quindi una perenne ammonizione alla fragilità della loro esistenza, un continuo rimprovero alla duplicità del loro comportamento. Che l’Unione Sovietica esista è per loro una benvenuta conferma del fatto che nel mondo esiste ancora del raziocinio, per il resto non amano l’Unione, ma piuttosto la odiano.

Per queste ragioni salutano ogni occasione, anche se non lo confessano a se stessi, di poter danneggiare l’Unione Sovietica. Il “mistero” dei processi trotzkisti porse loro la gradita occasione di segnalare ed ironizzare in brillanti articoli l’apparente arbitrio del procedimento. Il “terrore” esistente nell’Unione Sovietica dimostrò, con loro piena soddisfazione, che in fondo l’Unione non si distingue dagli Stati fascisti e che avevano quindi fatto bene a non aderire ad essa. Questo “terrore” giustificava davanti alla propria coscienza la loro indecisione e la loro inerzia. Il “dispotismo” dell’Unione Sovietica era per loro un gradito abito per coprire la propria nudità.

Nell’Unione Sovietica non ci si meravigliò di questo. L’effetto del processo Zinoviev non fece desistere la giustizia sovietica dall’istruire un secondo processo trotzkista. Il vantaggio della politica interna, la pulizia pubblica della propria casa immediatamente prima della guerra, compensò largamente quanto si poteva perdere in prestigio agli occhi di incompetenti critici stranieri. Nell’Unione Sovietica non ci si fanno illusioni sulla mentalità straniera. I Sovietici si vantano che soltanto il loro Esercito Rosso ha protetto il mondo prima dello scoppio della grande guerra fascista e salvato la civiltà dall’invasione dei barbari. I Sovietici sono convinti che soltanto per le loro armi, per la paura dell’Armata Rossa e per la propria debolezza, le cosiddette democrazie hanno concluso delle alleanze con loro, e perciò essi non le hanno concluse volentieri. Ora che i dirigenti delle democrazie sono finalmente riusciti ad ottenere dai loro Parlamenti e dalla loro opinione pubblica la concessione di armamenti, sì preoccupano ancora meno di prima di celare la loro antipatia per l’Unione Sovietica. I Sovietici sono dei politici realisti, l’effetto del processo non li ha sorpresi.

Radek nella sua difesa dichiarò che per due mesi e mezzo si era fatto spremere ogni parola della sua confessione, e che aveva reso assai difficile il lavoro al giudice istruttore. ” Non è stato il giudice istruttore a torturare me ” egli ha detto, ” ma io a torturare lui “. Parecchi giornali inglesi pubblicarono in merito a questa dichiarazione di Radek, a titoli cubitali: “Radek torturato”.

Credo di essere stato l’unico a Mosca che si sia meravigliato per questo modo di fare una relazione alla stampa.

Tutto considerato, trovo il contegno assunto da molti occidentali rispetto all’Unione Sovietica poco intelligente e poco dignitoso. Essi restano ciechi sull’opera storica compiuta; non vogliono capire che la Storia non si fa coi guanti. Enunciano i loro dogmi assoluti e vogliono misurare al millimetro fino a che punto giungono libertà e democrazia. Per quanto intelligenti ed umani siano gli scopi dell’Unione Sovietica, questi intellettuali occidentali sono tremendamente puritani nella critica dei mezzi. Per loro in questo caso il fine non giustifica i mezzi, ma i mezzi profanano il fine.

Lo capisco. Io stesso appartenni in gioventù a questi intellettuali, che esposero il principio del pacifismo assoluto e della non violenza integrale. Durante la guerra ho imparato. Già durante la guerra ho scritto un dramma, Warren Hastings in cui viene rappresentato un processo, che a suo tempo aveva pure commosso il mondo come ora i processi trotzkisti. Questo processo era però presieduto dal governatore generale ingieseWarren Hastings, uno degli uomini che fondarono la potenza dell’Inghilterra e introdussero la civiltà occidentale in India. Egli considerava la sua un’azione di progresso e noi, se pensiamo storicamente, gli daremo ragione. Questo mio Warren Hastings si era convinto che: “il sentimento dell’umanità può essere instillato negli uomini soltanto con i cannoni “, ed alla gente che coi loro principi umani lo costringono ad agire meno umanamente di quanto vorrebbe, dice: ” Per ventidue anni, quando il fiume Gange ogni tanto straripava, ho sperimentato che un lieve tremito della mano, provocato da umanità, ha devastato intere regioni. Voi, signori umani, non lo sapete: ma siete voi che mi costringete all’inumanità “.

Credo che tutti quanti, durante e dopo la guerra, abbiano avuto molteplici occasioni per rivedere i concetti sulla Gewaltlostgkeit e di compiere serie riflessioni sulla violenza. Che simili rèflexions sur la violence”, destinate a giustificare Lenin vengano addotte anche da Mussolini a sua giustificazione. Hitler non ha certamente mai sentito il nome di Georges Sorel non per questo esse perdono in esattezza. Esiste una differenza fra l’assassino che spara su un passante e un poliziotto che spara sull’assassino.

Con parole semplici, voglio dire che ogni scrittore avente qualche responsabilità si pone oggi il problema in questi termini. Se quanto viene oggi chiamato democrazia non permette il diffondersi dell’economia socialista con modifiche transitorie, che cosa preferisci: che la massa abbia meno carne, pane e burro e tu una maggior libertà nello scrivere, oppure viceversa?

Per uno scrittore conscio della propria responsabilità questo non è un problema facile.

Non è difficile criticare l’Unione Sovietica e la critica procura molta riconoscenza ai critici.

Vi sono deficienze interne ed esterne che non vengono nascoste ed è vero che per un occidentale non è ancora comodo vivere a Mosca. Ma chi mette in evidenza le deficienze dell’Unione e passa in seconda linea quanto di grande vi si può vedere, danneggia più se stesso che l’Unione Sovietica. Egli assomiglia ad un critico che in un poema geniale osservi in primo luogo l’inesattezza della punteggiatura. Nel primo libro tedesco su Shakespeare si legge:

” Conosceva poco il latino e niente affatto il greco”.

In fondo, tutte le obbiezioni degli intellettuali occidentali contro l’Unione Sovietica si possono ricondurre a due fondamentali, una morale ed una estetica. Quella morale osserva che in seguito alle differenze nei redditi si formano necessariamente nuove classi. Quella estetica richiama l’attenzione sul fatto che i dirigenti sovietici perseguono la spersonalizzazione degli individui e contemporaneamente creano uno sterile livellamento. L’ultima parte dell’obbiezione estetica biasima quindi esattamente il contrario di quella morale.

Tuttavia, un pò di verità c’è in entrambe le obbiezioni. Quando cioè gli apostoli dell’eguaglianza affermano che negli operai, contadini ed impiegati meglio pagati si sviluppa una certa mentalità piccolo borghese molto diversa da quell’eroismo proletario, al quale questi nostri moralisti sembrano aver diritto viaggiando nell’Unione Sovietica, non hanno completamente torto.

Gli apostoli dell’ineguaglianza temono, d’altra parte, che l’uniformità delle opinioni faccia maturare un certo livellamento, di modo che quando si sarà raggiunta la socializzazione dell’Unione non si avrà altro risultato che uno Stato gigantesco composto soltanto da media e piccola borghesia, ed anche questo timore non è del tutto privo di fondamento. Quando, ad esempio, una società ha raggiunto una determinata fase di transizione e precisamente quando mediante estreme economie è salita all’inizio del benessere, si sviluppano caratteristiche piccolo-borghesi. Ed analogamente all’effetto del benessere materiale, anche l’elevazione del livello spirituale nelle sue prime fasi provoca pure una certa volgarità nel giudizio e nel gusto. Ho già ricordato che gli elementi di tutte le scienze non possono che essere espressi nelle stesse formule e forme, di modo che all’inizio dell’istruzione non è possibile evitare il “collettivismo”. È però certo che la mentalità piccolo-borghese con l’aumentare del benessere scomparirà altrettanto presto, come con la diffusione dell’istruzione il famigerato collettivismo.

Tirando le somme, si vedrà che esistono ancora molti problemi entro i confini dell’Unione Sovietica. Ma anche per lo Stato vale quanto Goethe ha detto dell’individuo:

“Una cosa importante sa sempre conquistarci e quando riconosciamo i suoi pregi, lasciamo da parte quanto in essa c’è di problematico”.

L’aria che si respira in Occidente è cattiva, viziata. Nella civiltà occidentale non esiste più alcuna chiarezza ed energia. Non si osa stendere il pugno contro l’incombente barbarie od anche soltanto alzare la voce contro di essa, lo si fa a mezza bocca, con gesti vaghi e le dichiarazioni dei responsabili contro il fascismo sono inzuccherate e confuse. A chi non ripugna la leggerezza e l’ipocrisia con la quale questi responsabili reagirono all’aggressione della Repubblica spagnola da parte dei fascisti? Si respira quando, da questa opprimente atmosfera di democrazia falsata d’umanità ipocrita, si arriva nell’aria severa dell’Unione Sovietica. Qui non ci si nasconde dietro a frasi mistiche, domina piuttosto un’etica sobria, veramente more geometrico constructa, e solo questo raziocinio etico determina il piano in base al quale l’Unione ricostruisce. È quindi un metodo nuovo quello con cui costruiscono, ed è materiale completamente nuovo quello che viene impiegato. Ma il tempo degli esperimenti è già passato.

Si vedono ancora ovunque rottami e le impalcature sporche, ma già si alzano chiari e puliti i lineamenti della gigantesca costruzione. È una vera torre di Babele, ma non una che vuole avvicinare gli uomini al cielo, bensì questo a quelli.

E l’opera è riuscita, non hanno permesso che venissero confuse le lingue, essi si capiscono.

Fa bene, dopo tutta l’ipocrisia dell’Occidente, vedere una opera simile, alla quale si possa aderire con entusiasmo. E dato che non mi parve conveniente tenermi questo entusiasmo nel cuore, scrissi questo libro.