Per la critica dell’ideologia borghese

Stefano G. Azzarà

Globalizzazione e imperialismo

1. La favola della globalizzazione e il suo pubblico

In pochi luoghi ideologici è possibile misurare la portata della grave crisi di egemonia ed autonomia del marxismo come nel trionfo incontrastato della categoria di “globalizzazione” e nella pervasività con cui essa domina oggi il dibattito pubblico. Non sorprende certo l’uso compiaciuto che di questa immagine di un ordine economico internazionale pacificato – capace di liberare gli individui dal giogo della tutela statale e di realizzare persino l’antico sogno dell’unità del genere umano – viene profuso nel campo del liberalismo trionfante, né l’entusiasmo con cui essa è stata accolta da quella parte della sinistra che ha tagliato i ponti con il movimento comunista. E’ estremamente negativo, invece, che anche chi si richiama al marxismo e alla storia della lotta delle classi subalterne faccia costantemente uso di tale categoria, senza riflettere su cosa essa significhi già sul piano terminologico e su quali conseguenze comporti nella lettura dei fenomeni storici. Si tratta di un inconsapevole errore teorico, che mostra però l’entità di una subordinazione ideologica ad interessi eteronomi dalla quale è necessario liberare prima di tutto noi stessi, se ancora pensiamo di potere e dover costituire una parte politicamente autonoma e unitaria.

La scelta dei concetti impiegati nella designazione dei problemi, come è evidente, non è mai innocente, e la sfera linguistica e del significato è senz’altro la prima ed elementare dimensione dell’egemonia. Se parlare, ad esempio, delle grandi scoperte geografiche dell’età moderna da parte dell’Occidente significa di fatto rilegittimare la tragica realtà di un processo di conquista che si è intrecciato al genocidio, lo stesso finisce per accadere con l’uso acritico della categoria di “globalizzazione”: esso è indice di un grave stato di subordinazione e inconsapevolezza, che è il lascito più nocivo della mancata riflessione del movimento comunista sulla sconfitta politica e di sistema subita nel conflitto con l’avversario nell’ultima fase del Novecento. Quest’uso, come vedremo, contribuisce a rimuovere interamente le dinamiche politiche che soggiacciono a tali fenomeni. La categoria di globalizzazione, pertanto, andrebbe non certo espunta dal lessico della teoria marxista, ma utilizzata esclusivamente in senso critico. In quanto concetto descrittivo, però, essa andrebbe invece sostituita in modo sistematico con quella categoria oggi negletta che del movimento delle classi subalterne di tutto il mondo è stata, nel Novecento, la più potente arma teorica e politica, e cioè con il ritorno consapevole ed argomentato alla categoria leniniana di imperialismo.

2. Imperialismo, “globalizzazione” e questione nazionale

L’imperialismo fase suprema del capitalismo, scritto da Lenin nel 1916, segna un salto di qualità nella consapevolezza critica del movimento comunista, perché è il testo che più di ogni altro ha consentito di comprendere la dimensione internazionale e integralmente storico-politica delle contraddizioni che animano il modo di produzione capitalistico, mostrando come la catena dei rapporti di subordinazione e dominio tra gli Stati, nell’ambito della spartizione geopolitica dei grandi spazi di influenza e di dominio nel mondo, contenga necessariamente in sé le radici della guerra.

Nato anch’esso in ambito borghese (cfr. Hobson, 1974), il concetto di imperialismo trova però con Lenin la più compiuta sistemazione e un nuovo significato, a partire dal quale si tramuterà in una macchina conoscitiva così potente che gli stessi intellettuali liberali non potranno fare a meno di ricorrervi, per una comprensione realistica dei processi storico-politici iniziati alla fine del secolo scorso e protrattisi per tutto il Novecento. Esso, per fare solo qualche nome, è utilizzato a piene mani da Hannah Arendt, che nel ricostruire la genealogia dell’orrore del nostro secolo non può non fare riferimento a quella “competizione fra giganteschi complessi economici” che, generando le forme di massa del razzismo, avrebbe condotto ai “fenomeni totalitari del XX secolo” (Arendt, 1984, pp. 192 e 171). Ma persino lo Ernst Nolte del 1963 definisce fascismo e nazismo come forme di “dispotismo imperialistico” rivolte alla “colonizzazione” di superficie (Nolte, 1994, pp. 54 e 494). Anche chi poi, come Hans Kohn, rivendicava, a celebrazione del ruolo civilizzatore dell’imperialismo, la “forza limitatrice della validità riconosciuta di criteri etici universali, al di sopra della classe o della razza”, era costretto a confrontarsi apertamente con la forza di questo concetto nel mettere sotto accusa il frutto più estremo della tradizione liberale (Kohn, 1964, pp. 161-2).

Oggi, tutt’al contrario, non c’è più traccia di ciò, e alla categoria di imperialismo viene negata dagli autori liberali qualsiasi dignità e legittimità, mentre anche in ambito marxista essa trova sempre meno l’adeguato riconoscimento. Proprio nel momento del trionfo generalizzato della teoria del totalitarismo, diventa allora più urgente che mai rivendicare la persistente validità del ragionamento di Lenin, affermando oltretutto il suo statuto integralmente scientifico. La sua capacità, cioè, di andare oltre la superficie che gli eventi storico-politici ci mostrano, per rivelarne la più riposta e celata essenza, dissolvendo la loro immediatezza per scoprirne la genesi dialettica nella concretezza dei rapporti di subordinazione tra le classi, le nazioni e le aree geopolitiche imperiali.

Non c’è dubbio che gli studi di Lenin – che nei loro particolari riflettono la situazione di una fase storicamente determinata – vadano adeguati alla specifica realtà del capitalismo contemporaneo, e che alcune sue prese di posizione vadano seriamente criticate. Pensiamo solo, ad esempio, all’idea di una natura puramente stagnante del capitale finanziario monopolistico, o all’impossibilità di Lenin di studiare le strategie intensive di sviluppo del capitalismo novecentesco entro i mercati nazionali (servizi, industria del divertimento…). Ma, tenuto conto dei suoi limiti storici, esiste oggi una categoria capace di comprendere meglio il significato politico generale della realtà in cui viviamo di quella che ci consente di vedere come “il capitalismo si è trasformato in un sistema mondiale di oppressione e di iugulamento finanziario della schiacciante maggioranza della popolazione del mondo da parte di un pugno di paesi “progrediti”” (Lenin, 1994, passim), e che “la spartizione del “bottino” ha luogo fra due o tre predoni… di potenza mondiale, armati da capo a piedi, che coinvolgono nella loro guerra, per la spartizione del loro bottino, il mondo intero”? Abissale è “il distacco tra i quattro paesi capitalistici più ricchi” e “gli altri paesi”, denunciava Lenin nel 1916. I paesi “più ricchi di colonie” e quelli “più progrediti in rapporto alla rapidità di sviluppo e all’ampiezza di diffusione del monopolio capitalistico di produzione” detengono “circa l’80 % del capitale finanziario internazionale”, per cui “quasi tutto il resto del mondo, in questa o quella forma, fa la parte del debitore o tributario di questi Stati”. Una volta aggiornate le forme, ritoccate le cifre e compreso il nuovo meccanismo di riproduzione del dominio, è necessario aggiungere molto a questo quadro?

Il concetto di imperialismo è dunque la verità della globalizzazione: esso fa saltare impietosamente la copertura idealistica e la legittimazione morale con cui questa “grande narrazione” borghese cerca di convincere il suo pubblico della natura pacifica, armoniosa e spontanea di questo processo dell’economia e della stessa civiltà occidentale, rivelando invece nei dettagli i conflitti di interesse che lo animano e l’origine politica, frutto di concrete decisioni nell’ambito di una precisa lotta, che ne guida le direzioni. Mostrando poi, da un lato, tutta l’entità delle feroci contraddizioni che tale processo suscita all’interno dell’élite privilegiata delle potenze che agiscono da soggetti nella spartizione del mondo, la sempre più aspra conflittualità inter-imperialistica. E dando parola, dall’altro, alle ancor più drammatiche contraddizioni che esso genera entrando in collisione con la sovranità nazionale degli Stati investiti dalla sua avanzata.

Proprio dalla persistenza e dall’attuale rafforzamento dei caratteri imperialistici del sistema capitalistico mondializzato, discende allora il ruolo della questione nazionale come questione politica centrale di questa fase storica, nella quale, sia pure nelle forme più aggiornate, “si acuisce l’oppressione delle nazionalità e la tendenza alle annessioni, cioè alla soppressione della indipendenza nazionale”. E’ una conseguenza impossibile da rimuovere già sul piano logico, ma che trova ogni giorno conferma sullo scacchiere politico mondiale. Si capisce allora che una politica che si vuole di sinistra ma che non riflette sulla questione nazionale e non ne comprende la posizione cruciale, cercando di coniugarla con un programma socialista, si lasci sfuggire la contraddizione fondamentale del XX e del XXI secolo, perché rinuncia di fatto alla categoria di imperialismo, condannandosi così all’arretratezza teorica e alla perpetua ineffettualità politica.

3. “Globalizzazione” e dichiarazione di morte della forma-partito

In effetti, proprio la contestazione e la sistematica distruzione del leninismo e del concetto di imperialismo sembra essere l’obiettivo delle principali proposte di rinnovamento della sinistra “critica”. Ad avviso dei suoi più importanti portavoce intellettuali, infatti, proprio la novità della globalizzazione capitalistica renderebbe inutilizzabili le analisi leniniane, imponendo il loro rigetto e un sostanziale cambio di paradigma politico nella ricostruzione della sinistra “antagonista” del XXI secolo.

“Qualcosa di grosso” sta accadendo, sostiene Revelli, “nell’assetto produttivo e sociale mondiale”, enormi “processi profondi di ristrutturazione e di trasformazione sociale e produttiva” (Revelli, 1998, p. 5), che mutano drasticamente le condizioni del conflitto di classe. In primo luogo, la trasformazione in chiave “post-fordista” del modo di produzione capitalistico fa venir meno la centralità della fabbrica e la solidarietà interna alla classe operaia, minando alle fondamenta quel compromesso capitale-lavoro che ha costituito il terreno su cui sono stati edificati i sistemi sociali delle civiltà capitalistiche occidentali e le democrazie di massa. Inoltre, la massiccia finanziarizzazione del capitale e la sua transnazionalizzazione – la “globalizzazione” – hanno svuotato di ogni capacità di intervento le istituzioni dello Stato nazionale moderno, rendendole pressoché insignificanti dal punto di vista politico. Ostaggio degli incontrollabili flussi finanziari del capitale globale, lo Stato “perde la propria sovranità sul governo della ricchezza nazionale e perde la propria autonomia politica nazionale” (13).

Qual è la conseguenza di questi rivolgimenti impetuosi? Ne deriva che “in questo modello saltano tutti i riferimenti strategici della politica del Novecento” (15-16), e cioè crolla l’intero asse fabbrica-sindacato-partito-Stato, su cui si sono orientate nel corso di questo secolo sia la riflessione teorica del marxismo egemone sia l’azione pratica del movimento operaio organizzato su base nazionale ad opera dei diversi partiti comunisti: “non solo il ruolo dello Stato, che non deve essere più un mito di intangibilità, ma anche il ruolo delle vecchie identità politiche e delle vecchie formule organizzative vanno in frantumi”.

E’ desolante il panorama di queste macerie: “salta la centralità della fabbrica, salta il ruolo del partito e salta il ruolo dello Stato”, rendendo non più riproponibile il modello organizzativo e politico che è stato condiviso dall’intera sinistra novecentesca e rivelando la segreta consustanzialità tra il leninismo e la socialdemocrazia. Il salto di paradigma del modo di produzione capitalistico comporta infatti per Revelli una confutazione degli stessi presupposti marxiani secondo cui “il capitale nel suo sviluppo” produce “in maniera in qualche modo meccanica il soggetto destinato a superarlo” (32). Adesso, al contrario, esso “non solo non produce il soggetto che lo affosserà, ma rischia di produrre una frammentazione integrale del soggetto”. Nonostante tutto faccia pensare il contrario, si dà però una possibilità di fuoriuscita dal capitalismo, a partire da un rivolgimento totale dei modelli di intervento politico della sinistra. Si tratta di pensare non a “una concezione idraulica della rivoluzione per cui il capitale produce dall’interno il soggetto che crescendo ne fa saltare il reticolo dei rapporti di produzione”, bensì alla “necessità che attraverso uno sforzo culturale, di produzione soggettiva di socialità altra, si costruisca il nostro mondo fuori e contro il capitale”.

Cosa significa questo discorso? Disattivato ogni potere reale dello Stato-nazione, non ha più alcun senso da parte delle classi subalterne organizzarsi nella forma di un partito politico che punti a conquistare il potere e la direzione delle istituzioni, per instaurare il proprio dominio e tentare da qui di costruire rapporti sociali egualitari e edificare una forma di produzione post-capitalistica. L’orizzonte politico dell’organizzazione del partito comunista e della conquista dello Stato deve essere espunto dai progetti di ricostruzione della “nuova sinistra”, non solo perché partito e Stato sono divenuti ineffettuali, ma perché lo stesso soggetto antagonista è mutato e non ha più caratteristiche di classe. Non si tratta di unificare la classe ma di “organizzare chi non si identifica col modello capitalistico” (17), così come non si tratta più di sviluppare la lotta di classe fino alla sconfitta dell’avversario e alla conquista del potere, ma di programmare una consapevole “secessione dal capitale” (33), un gigantesco “esodo dal capitale”.

A tal fine, l’azione “politica” deve concentrarsi non su campi di intervento ormai obsoleti, ma piuttosto deve “fare società, riprodurre un rapporto sociale” (29) – “Una alternativa di società”, è il motto della mozione approvata all’ultimo congresso di Rifondazione comunista (cfr. Bertinotti, 1999) -, e cioè costruire “isole” di autonomia e auto-organizzazione sottratte al circuito mercantile, per poi collegarle tra loro. Per fare un esempio, non bisogna cercare di estendere lo Statuto dei lavoratori alle nuove forme di lavoro “flessibile” e “autonomo” parasubordinato: bisogna bensì garantire tale autonomia attraverso la rivendicazione di diritti minimi e, a partire da ciò, “costruire soggettività fuori e contro i soggetti capitalistici” (Revelli, 1998, p. 33). Cioè, in altre parole, convincere queste persone a non scambiare il loro autosfruttamento per vile denaro, integrandosi nel funzionamento del mercato capitalistico, ma piuttosto a connettersi in una sorta di rete di realtà auto-organizzate che, ad un certo punto, acquistata massa critica, decidano di dare l’addio al capitale e di operare una forma di inusitata secessione sociale.

Come questo sia possibile non è dato saperlo. Con quale moneta sonante sia possibile convincere le realtà autogestite e il cosiddetto “terzo settore” a non cedere all’assorbimento nel mercato reale e alla trasformazione in una redditizia impresa capitalistica, sfruttatrice di lavoro nero e divoratrice di Welfare – come avviene tutti i giorni (cfr. Burgio, 1999) –, per dedicarsi alla “secessione dei poveri” e alla costruzione di una “dimensione comunitaria… all’altezza delle dimensioni spaziali di oggi” (Revelli, 1998, p. 33), non viene detto. Perché mai il “settore dell’autorganizzazione… non potrebbe non avere carattere antagonistico” neppure (27). E’ chiaro però quali siano i modelli concreti cui riferirsi: accanto a “qualche forma di sindacalismo rivoluzionario” e al “movimento consigliare” (16), l’unica esperienza “alternativa” al pauroso mostro socialdemocratico-leninista sembra essere la forma associativa del Centro sociale. Quest’ultima è esplicitamente eletta a modello-guida di organizzazione: si tratta di “una formula organizzativa e politica particolarmente adeguata alla nuova dimensione del conflitto, alla trasformazione della composizione di classe e alle nuove forme dell’antagonismo” (5).

4. Marcos: questione nazionale come questione sociale

Cosa c’entra questo discorso con il problema del rapporto tra imperialismo e globalizzazione? C’entra, perché è chiaro che il nucleo centrale di questa proposta di ricostruzione della sinistra è proprio l’idea della fine dello Stato-nazione pensata a partire dal presupposto dell’irresistibile “globalizzazione” capitalistica, ed è chiaro che è proprio da qui che deriva la dichiarazione di morte della forma-partito. Tutto questo emerge nettamente dalla lettura che gli interpreti di questa tendenza forniscono di un testo che, suo malgrado, è stato di recente eletto a nuovo “classico” del pensiero politico contemporaneo: l’appello La quarta guerra mondiale è cominciata, del subcomandante Marcos dell’Esercito zapatista di liberazione nazionale.

Nonostante i limiti della sua analisi, Marcos dimostra di avere un notevole senso politico, e legge la “globalizzazione” in una chiave non sistemica bensì integralmente politica, come una forma storicamente determinata della strategia imperialistica, “una nuova guerra di conquista dei territori” (Marcos, 1997, p. 11) che ha avuto come principale effetto la dissoluzione del campo socialista, e come conseguenza l’apertura di una nuova fase del conflitto inter-imperialistico. Si tratta non di un’espansione immanente del modo di produzione su scala planetaria, ma dell’inizio di una “lotta nuova” per “nuovi mercati e territori”, di una “nuova guerra mondiale” che impone “una ridefinizione degli Stati nazionali”, e cioè una massiccia azione bellica nei loro confronti.

Dal fitto della selva Lacandona, Marcos riesce a vedere meglio di molti intellettuali occidentali che “l’ordine mondiale è tornato alle vecchie epoche delle conquiste di America, Africa e Oceania”, perché sconfitta l’Unione Sovietica, “vasti territori, ricchezze e, soprattutto, forza lavoro qualificata, aspettavano un nuovo padrone”. Ecco allora, per designare il nuovo “padrone del mondo”, una nuova guerra, che “oppone coloro che si erano autonominati “impero del bene””. Marcos vive sulla propria pelle le conseguenze che la dissoluzione dell’Urss e del blocco socialista hanno comportato per le lotte di resistenza dei popoli del Terzo Mondo, e – lungi dall’esultare per le radiose prospettive che questi eventi hanno aperto alla sinistra mondiale – riconosce esplicitamente il significato storico-politico progressivo di quelle realtà, e ne riconosce la natura socialista. E’ stata una sconfitta in guerra, una sconfitta (anche militare) in una “guerra totale”, e non un’incomprensibile implosione, ciò che ha “finito per dissolvere il campo socialista come sistema mondiale” (12; cfr. anche Arrighi, 1999, p. 33). Ebbene, regolato l’avversario più grosso e aperti con ciò nuovi mercati e fonti di ricchezza, ecco che il capitalismo internazionale bandisce una nuova guerra, che si svolge con le armi della finanza, contro “il mercato nazionale” Marcos, 1997, p. 12).

Anche Marcos tende in alcuni passaggi a parlare della globalizzazione come di un soggetto impersonale, e a individuare una sorta di strategia ultra-imperialistica. Ma comunque resta inequivocabilmente fermo il suo giudizio complessivo su questi processi: si tratta di una forma di neocolonialismo mediante il quale, dopo aver sconfitto il socialismo sul piano internazionale, i centri capitalistici mondiali risolvono a loro favore la questione sociale attaccando alle fondamenta l’autonomia degli Stati nazionali. E’ chiaro allora che nel suo discorso questione nazionale e questione sociale coincidono: le armi finanziarie “servono ad attaccare territori (Stati Nazionali), distruggendo le basi materiali della sovranità nazionale… e producendo uno spopolamento qualitativo dei loro territori” (16), ma anche una “distruzione storica e culturale” (18) all’insegna dell’americanismo più sfrenato.

Questa strategia di “distruzione di nazioni e gruppi di nazioni” si svolge principalmente producendo “fratture negli Stati nazionali” (38-39), mettendo in atto una “moltiplicazione delle frontiere e una polverizzazione delle nazioni”. E’ una dinamica che può prevedere il ricorso alla guerra guerreggiata, come nel caso dell’Irak o della Jugoslavia, ma anche il sostegno alle “tendenze separatiste” presenti persino nei paesi occidentali avanzati. In ogni caso, il significato di questa strategia è evidente: si tratta di un programmatico tentativo di “distruzione degli Stati nazionali”. E’ un punto sul quale anche Chossudovsky è d’accordo: la globalizzazione “impedisce sempre più ai singoli paesi in via di sviluppo la possibilità di crearsi un’economia nazionale” e di mettere in atto un “processo endogeno di sviluppo economico nazionale, controllato dai politici nazionali” (Chossudovsky, 1998, pp. 32 e 67).

Muovendo da un’analisi così lineare, che individua la centralità della questione nazionale nel suo nesso con quella sociale, Marcos non può che elaborare una precisa strategia. Di fronte alle accuse di separatismo mosse all’Ezln dal governo centrale, egli denuncia il tentativo della borghesia compradora messicana di operare una “frammentazione del Messico” (Marcos, 1997, pp. 42-3) che trasformi alcune zone di questa nazione in riserve di bottino. Appare evidente allora che “il recupero e la difesa della sovranità nazionale sia parte di una rivoluzione antineoliberista”. Egli non potrebbe dirlo con parole più chiare: in questa fase, è “necessaria la difesa dello Stato nazionale di fronte alla globalizzazione”.

5. L’intellettuale sociale del passato: fine dello Stato-nazione e fine del comunismo moderno

Marcos, che dimostra grande modestia, è ben consapevole della situazione in cui si trova a combattere, e perciò sa bene che la lotta di un piccolo popolo indigeno è anzitutto una lotta di “resistenza” (Marcos, 1997, p. 41), e non si pone l’obiettivo della presa del potere. Allo stesso modo, è consapevole che le sue prese di posizione valgono anzitutto “in Messico” (43), e non vanno assunte come linea di condotta per l’intera nuova sinistra mondiale. Nei commenti che accompagnano il suo saggio, però, tutto ciò scompare. Secondo Revelli, Marcos, avendo colto l’immensa “rottura di dimensioni epocali” provocata dalla globalizzazione, rappresenta nientemeno che il paradigma dell’”intellettuale sociale del futuro”, capace di indicare quel “salto di qualità” imprescindibile “nel processo di costruzione di una sinistra “mondializzata”, all’altezza della sfida della “globalizzazione”” (Revelli, 1997, p. 60-1).

In cosa consisterebbe, poi, questo salto di qualità? Nell’apprendimento che la forma dello Stato-nazione è travolta dalla globalizzazione, e che di conseguenza è necessario superare “la tradizione del movimento operaio novecentesco e della sinistra politica che ne ha costituito la rappresentanza”. Insomma, per utilizzare Marcos nel momento in cui si sta dichiarando definitivamente esaurito il progetto politico comunista moderno – questo e nient’altro significa parlare di “cesura storica nella tradizione del movimento operaio”, con la conseguente “radicale revisione delle sue strategie” (63-4) -, si sostiene qui l’esatto contrario di ciò che Marcos dice. Tanto Marcos aveva sottolineato la centralità della questione nazionale, tanto questa è negata da Revelli. Tanto Marcos aveva posto l’obiettivo di una resistenza che passa per la ricostruzione dell’unità nazionale, tanto Revelli considera superato l’orizzonte nazional-statale della politica.

Si tratta non solo della negazione più completa della politica stessa, ma di una totale cecità nei confronti del fatto che la difesa dell’autonomia e della sovranità delle istituzioni nazional-statali costituisce oggi un momento imprescindibile della lotta di classe e della difesa dei ceti più deboli. A guardar bene, forse solo Kenichi Ohmae, il teorico della fine dello Stato-nazione, è altrettanto radicale nel sostenere la visione ultra-imperialistica secondo cui, con la globalizzazione dell’economia, “il potere sull’attività economica migrerà inevitabilmente dai governi centrali degli Stati-nazione alla rete senza confini formata dalle innumerevoli decisioni individuali prese a partire dalla realtà del mercato” (Ohmae, 1996, pp. 69-70), affermando che, sparite le frontiere economiche, i “confini arbitrari e storicamente accidentali” (16) delle nazioni non hanno più senso, e che pertanto è divenuto “superfluo il ruolo di “mediatore” tradizionalmente svolto dagli Stati-nazione” (20). Un evento che è una speranza, da cui Ohmae trae le conseguenze inevitabili, e cioè la necessità di una revisione “dei valori fondamentali su cui si reggeva un ordine mondiale basato su una serie di Stati-nazione distinti e indipendenti”, e cioè persino della “democrazia liberale praticata dai Paesi occidentali” e del “concetto stesso di sovranità politica”.

Ohmae è un profeta interessato della “globalizzazione”, e può dire dunque in tutta ragione ciò che dice. Ma se pure la capacità dello Stato nazionale e delle forme politiche nazionali di sostenere l’attacco imperialistico portato attraverso le diverse forme di internazionalizzazione degli scambi è sotto attacco ed è divenuta problematica, ciò non toglie che per la sinistra il giudizio storico-politico su questi processi sia discriminante, e che la loro mancata comprensione e denuncia come tappe costitutive di un attacco di classe costituisca una grave colpa teorica e pratica. A guardarvi dentro fino in fondo, infatti, la conseguenza del misconoscimento della categoria leniniana di imperialismo e della conseguente centralità della questione nazionale non comporta soltanto una totale incomprensione del ruolo dello Stato in questa fase politica. Essa comporta la parola fine sulla stessa esperienza del comunismo storico novecentesco, e cioè sull’unica forma di comunismo moderno che sia mai stata praticata.

Il salto di paradigma del modo di produzione capitalistico impone infatti secondo Revelli la costruzione di “una nuova soggettività organizzata, non più strutturata dentro il modello centralistico e burocratico che fece la fortuna del leninismo e prima ancora del kautzkysmo” (Revelli, 1997, p. 66), e cioè, in parole povere, “non più affidata… alla forma-partito e alle sue strutture plasmate sulla matrice della forma-Stato”. Cosa deve fare la sinistra del Duemila, invece di provare a prendere il potere? “Praticare la logica del réseau, del “reticolo”, la modularità flessibile e leggera dei nuovi paradigmi organizzativi, il campo lungo della comunicazione disseminata e istantanea, la connessione tra realtà e soggetti che non intendono “dissolversi” nell’organizzazione cui si affidano, ma “collegarsi” a partire dalle proprie irriducibili specificità”. Al di là della retorica informatica, ciò significa che “l’unica realistica e praticabile” forma organizzativa della sinistra consiste nel guardare a “quelle bourses du travail che segnarono, a inizio secolo, una possibile e non praticata via di auto-organizzazione e di autonomia per il nascente movimento operaio”. E tutto questo per cosa? Per ritrovare ciò che ancora Marcos, nella selva Lacandona, può per sua fortuna vivere: “la forza coesiva della comunità di appartenenza”! E’ una posizione che anche altri interpreti di Marcos condividono (cfr. Sullo, 1997 e Bettin, 1997).

Dalle stelle alle stalle, insomma: da Lenin alle mutue operaie, prime forme embrionali di resistenza delle classi lavoratrici ancora incapaci di organizzarsi in partito politico autonomo! Ma anche, addirittura, nel nome della “comunità” e delle “radici” – paradossalmente associate al cosmopolitismo borghese, oggi propagato a piene mani dai mezzi di comunicazione di massa nella forma postmoderna del “meticciato” e del “nomadismo” (cfr. Bauman, 1999, pp. 5 e 110) -, da Lenin a Heidegger! Avvolto nelle allettanti vesti del Nuovo che avanza, ecco l’inaudito ritorno postmoderno della forma più rozza di socialismo, quello comunitario già liquidato a suo tempo da Marx e Engels nel Manifesto; quello su cui Nolte, che interpreta il comunismo moderno come una forma di comunitarismo primitivo, avrebbe la più facile delle vittorie teoriche. Salita alle vette del materialismo storico, la sinistra dovrebbe ora “aggiornarsi” per adeguarsi alla nuova forma del conflitto, e dovrebbe farlo tornando… a Proudhon.

Bisogna dirlo una volta per tutte: più che a una lucida analisi materialistica delle nuove condizioni della lotta di classe, assistiamo in realtà oggi alle più diverse vendette postume. Tutti i più diversi filoni della sinistra storica del Novecento, che avevano in diversi modi gravitato attorno all’asse centrale dell’organizzazione politica del movimento operaio nella forma dei partiti comunisti nazionali e che, altrettanto vecchi, trovavano nell’opposizione ad essa il loro principale significato – menscevismo, luxemburghismo, trotzkismo, socialismo sindacal-rivoluzionario, lo stesso riformismo, le varie “sinistre critiche” di ispirazione francofortese -, si prendono oggi la rivincita e presentano il conto. Pretendendo di essere il Nuovo, essi – che condividono con Veltroni quella teoria del totalitarismo che identifica comunismo e nazismo, Stalin e Hitler – siedono oggi accanto all’intero pantheon liberale, banchettando allegramente sul cadavere di Lenin e festeggiando in coro la fine dello Stato nazionale, del partito comunista, della classe operaia e della stessa politica.

6. Superamento dell’orizzonte nazional-statale?

Ma è proprio così realistica, in fin dei conti, la visione di un salto di paradigma del modo di produzione talmente radicale da generare il travolgimento completo dell’orizzonte nazional-statale, il superamento della strategia imperialistica e la nascita di una strategia sistemica autonoma, ultra-imperialistica, in cui le grandi centrali capitalistiche si transnazionalizzano, si emancipano dai centri del potere politico e si spartiscono consensualmente il globo, avvolgendolo nella rete omogeneizzante della “globalizzazione”? E’ proprio vero che lo Stato nazionale è irrimediabilmente finito, e che questo impone ai soggetti antagonisti di trovare forme radicalmente “innovative” di organizzazione, che prescindano dall’organizzazione partitica e dalla conquista del potere politico statale per praticare una sorta di inspiegabile “comunismo degli interstizi”?

Le cose sembrerebbero notevolmente più problematiche. Rivolgiamoci all’economista marxista Samir Amin. Questi critica l’economicismo di certe analisi della sinistra, sottomesso alle idee altrettanto economicistiche delle classi dominanti. La stagnazione del capitalismo internazionale, la sua crescente mondializzazione e la sua finanziarizzazione, acceleratesi negli ultimi decenni, spiega, “non sono affatto una cosa nuova” (Amin, 1995, p. 8), mentre nuovo è il contesto in cui esse oggi si svolgono, e cioè il contesto della sconfitta del progetto politico di un’alternativa socialista mondiale.

Proprio la trasformazione del contesto politico, che al crollo del blocco socialista associa la crisi del Welfare occidentale e la fine dei progetti nazional-borghesi nel Terzo Mondo, è a suo avviso decisiva nell’invertire il significato di questi processi e nel far riemergere l’”utopia liberale” di una mercificazione totale della forza lavoro, della natura e della moneta. In realtà, però, non solo si tratta di una tendenza tutta condizionata politicamente, ma la “globalizzazione” attuale “non è in grado di definire da sé una nuova fase di espansione capitalistica”, perché al contrario essa “non è che la gestione della crisi” della fase precedente mediante un processo di finanziarizzazione (21). Anche Chossudovsky, del resto, fa notare che le attuali forme di funzionamento del capitale finanziario “riducendo la capacità di consumo della società… ostacolano in definitiva l’espansione del capitale” (Chossudovsky, 1998, p. 9).

Rifacendosi alla nota tripartizione braudeliana dei livelli delle formazioni economico-sociali, Amin fa notare agli economicisti di sinistra come proprio il livello del “potere” sia “decisivo nella definizione propria del capitalismo” (Amin, 1995, pp. 23-4). Il “potere capitalistico” non è un “prodotto spontaneo del mercato”, ma piuttosto esso si genera “al di fuori e al di sopra dei vincoli che esso impone”. Proprio questo livello “definisce” lo statuto delle società capitalistiche, a partire dalla loro prima formazione cinquecentesca in coincidenza con la nascita degli Stati nazionali. Cosa dedurre da ciò? In primo luogo che la tendenza alla liberalizzazione dei mercati e della vita economica generale, con i conseguenti effetti “globalizzanti” che consentono alle imprese di aggirare i vincoli statali, non è affatto il prodotto di uno sviluppo logico immanente e sistemico del modo di produzione ma un processo politico; e poi che, in assenza del costituirsi di un livello di gestione del potere all’altezza di tali tendenze, di un centro politico capitalistico mondializzato, “le libere strategie dell’impresa privata non costituiscono un insieme coerente che garantisca la stabilità di un nuovo ordine”.

E’ qui che si scopre quanto sia problematica l’idea di una fine dello Stato nazionale. Se la gestione del “rapporto fra lo spazio della riproduzione economica e lo spazio della gestione politica” definisce l’essenza stessa del sistema capitalistico, se si dà capitalismo solo attraverso “la cristallizzazione di un’associazione fra potere politico e spazio economico”, la “questione del territorialismo” di questo sistema economico rimane inaggirabile (31 e 33). Nelle condizioni di una assenza di territorialità politica, dunque, le tendenze globalizzanti generano “il caos”, e in tal modo “rivelano la vulnerabilità di questa mondializzazione che sarà perciò rimessa probabilmente in discussione” (26).

Ecco che si può capire che la fase di finanziarizzazione che stiamo attraversando è solo “un modo di gestione della crisi, non di preparazione del suo superamento”: gestione di una crisi dovuta a stagnazione interna, ma anche a sconvolgimenti territoriali e politici di cui non si vede ancora la risoluzione. Anche nella fase attuale, comunque, “la concorrenza è… sia quella che oppone gli Stati sia quella che oppone le imprese”. L’idea di un’emancipazione definitiva delle imprese dalla base nazional-statale è mera illusione. In realtà la relazione tra imprese e Stati non è mai “lineare” ma sempre “funziona nei due sensi, predominando in alcune fasi una direzione, in altre fasi un’altra”. Nulla autorizza a dire che l’attuale tendenza costituisca “una caratteristica strutturale della nuova mondializzazione, atta a stabilizzarsi come tale”: è una questione aperta, ma che, considerata la necessaria transitorietà dell’attuale fase di finanziarizzazione, tenderà probabilmente a risolversi con un’inversione. In ogni caso, conclude Amin, “non è detto che una mondializzazione economica sfrenata, proposta dall’ideologia neoliberista estrema, possa imporsi e vincere le resistenze del “politico” forzato a sottomettervisi (si dice “adeguarsi”)”. Tutto al contrario, questa pretesa capitalistica è probabilmente “votata a fallire” (46-50). Anche per Bellofiore, poi, non solo “le trasformazioni a cui assistiamo tutto sono meno che emancipate dalla politica”, ma “ciò che la politica ha deregolato non si vede perché la politica non debba riregolare” (Bellofiore, 1999, p. 39).

Per capire meglio le posizioni di Amin sul nuovo rapporto tra impresa e base nazionale, rivolgiamoci ora a un autore non marxista. “Con l’intensificarsi della globalizzazione della concorrenza”, dice l’economista statunitense Porter, “alcuni hanno cominciato a sostenere che il ruolo delle nazioni sta diminuendo” (Porter, 1991, p. 48). In realtà, non solo “i considerevoli flussi di capitale tra le nazioni non sono un fenomeno nuovo” (639), ma “l’idea che la globalizzazione elimini l’importanza della base nazionale si fonda su false premesse, così come è senza fondamento l’accattivante strategia della rinuncia alla competizione”. A guardar bene, infatti, i processi di “globalizzazione”, con la conseguente “internazionalizzazione e eliminazione dei protezionismi e di altre distorsioni della concorrenza”, continua, “rendono le nazioni, semmai, ancora più importanti”, perché “le differenze nazionali di carattere e di cultura” divengono in queste condizioni “un fattore integrale per avere successo” nella “competizione globale”.

Nonostante i profeti della fine delle nazioni, “le differenze nelle strutture economiche nazionali, nei valori, nelle culture, nelle istituzioni e nella storia contribuiscono profondamente al successo competitivo” (36), tanto che si può dire che nella fase attuale “il ruolo della nazione-base sembra essere altrettanto forte o addirittura più forte che mai”. Ma altrettanto decisive sono cose economicamente più tangibili, come “la politica del governo (per esempio la politica fiscale e le regolamentazioni), la normativa legale, le condizioni dei mercati dei capitali, i costi dei fattori”, tutte cose che rendono i confini nazionali addirittura “più importanti” di prima. Lungi dal mettere fuori gioco il ruolo dello Stato nazionale nella determinazione, nel mantenimento e nello sviluppo del vantaggio competitivo delle imprese nei diversi settori industriali, dunque, la “globalizzazione” dei mercati piuttosto “ne cambia il carattere” (93).

Porter analizza la formazione del vantaggio competitivo secondo il noto schema del “diamante nazionale”, che mette in relazione quattro determinanti aventi base nazionale: le condizioni dei fattori, le condizioni della domanda, i settori industriali correlati e di sostegno, e infine la strategia, struttura e rivalità delle imprese. Le politiche industriali nazionali non sono affatto scavalcate, ma devono piuttosto passare da un diretto sostegno al sistema industriale a uno rivolto allo sviluppo dei quatto determinanti del proprio specifico “diamante nazionale”. “La nazione d’origine” e la particolare configurazione del suo diamante, dice Porter, è decisiva “per il successo internazionale di un’impresa” (669). Sin dall’inizio “la nazione è il luogo in cui, in ultima analisi, ha origine il vantaggio competitivo” e dove esso “va conservato”. Come fa notare anche Amin, la “competizione tra imprese” è in realtà “una competizione tra sistemi nazionali, a partire dai quali queste imprese prendono slancio” (Amin, 1995, p. 47). La “globalizzazione” dunque “non sminuisce minimamente l’importanza della nazione” (Porter, 1991, p. 669), ma semmai “completa e rafforza il vantaggio competitivo creato nella base domestica”, tanto più che, come Porter crede di poter dimostrare sulla base dei suoi calcoli comparati, l’affermazione contraria “raramente trova riscontri nella realtà” (713). Risulta chiaro, alla fine, che “sono proprio le differenze tra le nazioni a promuovere il successo competitivo” (868), e che lungi dallo scomparire esse sono ancora vive e vitali.

E’ un risultato condiviso anche da Lafay: “benché siano generalmente private”, le grandi imprese che competono sul mercato mondiale “restano caratterizzate dalla propria nazionalità” (Lafay, 1998, pp. 44-5), in quanto rimangono legate alla propria nazione “per quanto riguarda i capitali, la cultura e i principali dirigenti”. Negli scambi internazionali, al massimo, si può assistere come è sempre avvenuto all’intreccio di “due logiche complementari, quella delle imprese e quella delle nazioni”, e cioè a una loro “nuova complementarità”. Notiamo, del resto, che lo stesso Marcos cita nel suo saggio questi dati desunti da F. Clairmont: nei primi anni Novanta, “circa 37 mila imprese stringevano con le loro 170 mila filiali l’economia internazionale nei loro tentacoli. Ciononostante, il centro del potere si colloca nel cerchio più ristretto delle prime duecento”. Ebbene, continua Clairmont, “geograficamente, esse si ripartiscono tra dieci paesi: Giappone (62), Usa (53), Germania (23), Francia (19), Regno Unito (11), Svizzera (8), Corea del Sud (6), Italia (5) e Paesi Bassi (4)” (in Marcos, 1997, p. 21).

Non pare dunque che si possa in alcun modo parlare di fine del principio di nazionalità. Almeno non secondo autorevoli protagonisti della scena politica europea, come l’ex primo ministro francese Edith Cresson, che sembra invece avere ben chiare le idee sul ruolo delle nazioni sullo scacchiere economico mondiale: “Il Giappone”, dice, “è un avversario che non gioca secondo le regole ed ha un desidero estremo di conquistare il mondo. Bisogna essere ingenui o ciechi per non accorgersene” (in Thurow, 1992, p. 89). Ma ancora più autorevole è il parere del segretario di Stato americano Madeleine Albright, che parla per la propria parte quando dice che “uno degli obiettivi prioritari del nostro governo è di garantire che gli interessi economici degli Stati Uniti si possano estendere a scala planetaria” (in Marcos, p. 36). E’ proprio vero: le nazioni sono in crisi. E del resto chi non lo sarebbe, se fosse preso di mira da Madeleine Albright…

7. Estinzione o ridefinizione dell’interesse nazionale?

E però, sostengono i fautori della tesi della fine dello Stato-nazione, l’obsolescenza di questa istituzione è dimostrata dal fatto che anche nei paesi potenzialmente imperialistici non sussiste più l’”interesse nazionale”, perché le imprese transnazionali si sono completamente emancipate dal territorio, non redistribuiscono ricchezza e sono capaci di licenziare e delocalizzare la produzione ovunque convenga loro, oltre che di depositare i profitti nei migliori paradisi fiscali disponibili.

Si tratta dell’ennesima illusione ottica, generata dal contentarsi della forma fenomenica in cui un processo storico si manifesta. In realtà, l’interesse nazionale non sparisce affatto. Esso, molto semplicemente, subisce una radicale ridefinizione verso l’alto, verso quei ceti che per prosperare non hanno alcun bisogno di uno Stato che li tuteli. Sono le classi subalterne delle diverse nazioni ad aver bisogno della protezione dello Stato. Del loro interesse, effettivamente, alle imprese transnazionali non importa alcunché. Ma dell’interesse dei loro azionisti importa eccome. Semplicemente, queste persone non hanno alcun bisogno di uno Stato che le difenda, e perciò vincoli le imprese a rispettare i contratti nazionali e le obblighi a pagare le tasse. E dunque è evidente che il loro tangibilissimo interesse – un interesse tutto “nazionale”, perché è da ciò che fa o non fa, che proibisce e che lascia fare questo determinato governo che dipendono i dividendi di questa impresa che lavora nel suo territorio – è quanto mai tutelato dall’emancipazione delle imprese dalle istituzioni nazionali. Tale emancipazione è precisamente questo loro interesse “nazionale”.

Lungi dallo sparire, dunque, l’interesse nazionale si ridefinisce radicalmente verso l’alto, per il semplice fatto che, a causa della sconfitta subita nell’ambito della lotta di classe, le classi subalterne hanno rapidamente perduto negli ultimi anni molti dei diritti e delle posizioni conquistate quando la loro forza relativa era più elevata, e che – tramite i loro partiti – erano riuscite a far mettere per iscritto nelle leggi dello Stato e a far tutelare dalla politica, dalla magistratura e dalla polizia. A lungo escluse e considerate estranee, solo nel XX secolo, dopo una secolare lotta irta di contraddizioni, tali classi hanno conquistato la piena cittadinanza nello Stato borghese e sono riuscite a “nazionalizzarsi”, strappando all’avversario il riconoscimento dei loro diritti civili, politici ed economico-sociali (cfr. Losurdo, 1993). Nel momento in cui sono sconfitte sul piano internazionale, e viene meno la potenza statale che amplificava dall’esterno i loro sforzi (cfr. Hobsbawm, 1998, pp. 20, 105, 321), esse sono sconfitte anche sul piano interno e devono lottare contro un nuovo tentativo di de-emancipazione. Se il Welfare è parte integrante della democrazia politica e della stessa cittadinanza borghese, il suo smantellamento costituisce il gravissimo tentativo di de-nazionalizzare le classi subalterne, di espellerle nuovamente al di fuori dell’ambito dei diritti e delle garanzie tutelate.

Guardando all’improvviso revival del servizio domestico negli Stati Uniti, Luttwack parla esplicitamente di “ritorno di modelli vittoriani nella distribuzione del reddito” (Luttwack, 1999, p. 108). E il ritorno a una situazione ottocentesca è denunciato anche da Bauman, che nota la ripresa massiccia dell’ideologia dello Stato-guardiano notturno cara ai teorici liberali del secolo scorso (Bauman, 1999, p. 129 sgg.). E’ evidente che, in questo processo, la stessa nozione di Stato, di nazionalità e di interesse nazionale subisce una radicale ridefinizione. E’ evidente, inoltre, che tutto ciò deve essere impedito, senza lasciarsi convincere che la difesa del Welfare e della piena “nazionalità” e cittadinanza delle classi subalterne costituisca un atteggiamento moderato o di retroguardia.

8. La formazione dei nuovi blocchi geoeconomici

Abbiamo quantomeno reso più problematiche alcune certezze ingiustificate, e messo in evidenza alcuni equivoci e luoghi comuni. Facciamo però un passo avanti, e cerchiamo di capire quali processi reali si celino dietro l’immagine della “globalizzazione”.

Secondo l’economista tedesco Henzler, la concorrenza economica in questa fase non avviene semplicemente “fra imprese”, bensì “fra sistemi capitalistici profondamente diversi gli uni dagli altri per valori, priorità, struttura istituzionale e obiettivi” (Henzler, 1998, p. 4). “Nonostante la diffusione dei modelli di produzione e di consumo”, spiega ancora Lafay, “l’economia mondiale è ben lontana dall’essere omogenea” (Lafay, 1998, p. 9). In realtà, lungi dall’aver condotto alla costituzione di un mercato mondiale indistinto, alla “investitura di un solo capitalismo che trascende le nazioni” (J. Luzi, in Tripodi, 1998, p. 123), la “globalizzazione” sta determinando il formarsi di “rapporti di vicinanza attorno ai tre poli economici costituiti da Stati Uniti, Unione europea e Giappone” (Lafay, 1998, p. 9), e alla formazione di tre macro-regioni: America, Eurafrica e Asia Oceania.

Secondo l’economista statunitense Thurow, la fine della Guerra fredda ha consentito il passaggio da una fase in cui gli scambi internazionali avvenivano per nicchie di mercato a una in cui la competizione avviene, come lui dice, “testa a testa” (Thurow, 1992, p. 22), tra nazioni che concorrono negli stessi settori industriali a partire dalla produzione grossomodo dello stesso tipo di beni. Lungi dal disegnare uno scenario ultra-imperialistico, però, questo mutamento ha generato un terreno di gioco economico in cui “tre superpotenze economiche, gli Stati Uniti, il Giappone e l’Europa” (che a suo avviso rimane “incentrata sulla Germania”, laddove l’Inghilterra funge da polo destabilizzante in rappresentanza degli interessi Usa) si impegnano “a contendersi la supremazia economica” (7).

Lo scenario attuale, spiega Thurow, è il risultato del grande successo conseguito dalle istituzioni economiche internazionali che hanno costituito il sistema di Bretton Woods. Mentre rinsaldavano la solidarietà antisovietica delle nazioni “democratiche”, tali istituzioni promuovevano la crescita delle potenze capitalistiche sino a portarle in pochi decenni ad un livello di ricchezza e produttività comparabile con gli stessi Stati Uniti (cfr. anche Lafay, 1998, pp. 17-21). Lo scenario che questa trasformazione ci presenta, comporta l’avvio di una vera e propria “guerra economica”, la cui posta in gioco consiste nello “stabilire chi dominerà il XXI secolo” (Thurow, 1992, pp. 18-9).

Oltre che di una competizione “intrasistemica” tra due diverse forme di capitalismo – quello individualistico anglosassone e quello comunitario nippo-tedesco – si tratta di un confronto fra tre immense aree geopolitiche, imperniate attorno a tre fortissimi Stati nazionali, così lontani dall’essere in crisi da consolidarsi piuttosto in tre grandi “quasi-blocchi commerciali” (69). Sottraendosi alle regole generali del GATT, questi quasi-blocchi, attraverso una serie di accordi di reciprocità, tendono a dar vita a un sistema internazionale di “commercio manovrato”. Ogni blocco costituisce un’area parzialmente protetta di libero scambio, che privilegia gli interessi delle imprese delle nazioni interne al blocco, rendendo più difficile la penetrazione da parte delle imprese dei blocchi concorrenti e pressoché impossibile la circolazione delle merci dei paesi terzi, come quelli del Terzo Mondo (244-5). E’ tra gli Stati-nazione di queste grandi aree regionali che si va manifestando un incremento del commercio internazionale (che però ammonta ancora soltanto al 12 % circa del PNL dei diversi paesi), laddove il commercio con i paesi esterni va diminuendo (cfr. Bellofiore, 1999, p. 38).

Che ne è degli Stati nazionali entro questi blocchi? Nel quadro disegnato da Thurow essi non sembrano affatto scomparire. Non spariscono di certo gli Stati Uniti d’America, a meno che qualcuno non voglia credere che essi, dopo la creazione del Nafta, spartiscano la loro sovranità con il Messico. Non sparisce di certo lo Stato nazionale giapponese, che anzi si distingue per un’aggressività economica che della pressoché totale “nipponicità” delle sue imprese mena gran vanto. Per quanto riguarda l’Europa, infine, nemmeno la retorica europeista degli ultimi anni fa pensare a uno scioglimento delle singole nazioni nell’UE, a meno che qualcuno consideri cose come la lingua o le diverse culture nazionali come delle quantità trascurabili.

Tanto poco gli Stati nazionali scompaiono, che Thurow tende a considerare il confronto fra i tre blocchi alla stregua di un confronto tra Usa, Giappone e Germania. Nell’ambito di questo confronto, egli sostiene la necessità che lo Stato nazionale americano si adegui alle nuove regole del gioco economico internazionale e, al fine di vincere questa nuova partita economica, si doti di “strategie nazionali” economiche (Thurow, 1992, p. 343; cfr. anche Porter, 1998) e di una più esplicita “politica industriale” (Thurow, 1992, p. 346), e cioè dia avvio a una fase protezionistica, indebolendo la legislazione antitrust e consentendo la nascita di alleanze strategiche tra imprese americane, per renderle capaci di competere “con i gruppi d’imprese tedeschi e giapponesi” (cosa del resto puntualmente avvenuta: cfr. Reich, 1998, p. 129). In caso contrario, gli Usa potrebbero fare la fine del Canada, paese in cui, essendo la maggior parte delle imprese di punta caduta in mano straniera, i pur abbienti cittadini non potranno mai raggiungere i “massimi livelli” mondiali negli standard del benessere (Thurow, 1992, p. 236).

9. Il XX secolo: ascesa e declino del conflitto inter-imperialistico tra i Grandi Spazi

Per chi considera ancora valide le categorie del leninismo, la situazione descritta da Thurow appare cristallina: si sta parlando qui del sorgere, alla fine della Guerra fredda, di una nuova fase di conflittualità inter-imperialistica. Per capirne il significato nell’ambito di una più generale dinamica storico-politica, è necessario però metterla in relazione con le direttrici che hanno guidato la storia del XX secolo, un periodo che si può dire sostanzialmente chiuso con la sconfitta del campo socialista.

Alla vigilia della Prima guerra mondiale si era chiaramente consolidata la dinamica strategica di un confronto inter-imperialistico che si svolgeva non semplicemente tra Stati nazionali bensì tra grandi spazi, tra enormi blocchi imperiali che su questi si imperniavano. La dimensione spaziale, come insegnava quella scuola “geopolitica” che si era diffusa sia nell’area anglosassone che sul Continente, era divenuta decisiva: concorrenti per la redistribuzione del potere mondiale sono anzitutto gli Stati Uniti e la Russia, che, forti degli immensi spazi interni a loro disposizione, sono pronti a mettere in discussione il predominio assoluto di quell’Impero britannico che aveva raggiunto in quegli anni il culmine della sua espansione fornendo un solido equilibrio eurocentrico alla Terra. La Germania pretende di dire la sua nell’imminente nuova spartizione del mondo, e di accedere ai vantaggi che le spettano nell’ambito dell’ordine Herrenvolk e razziale che reggeva le sorti dell’intero pianeta, ma per farlo deve preliminarmente procurarsi una base territoriale sufficientemente ampia, sostituendo la vecchia idea grande-tedesca con quella di “Mitteleuropa”.

E’ questa la dinamica che conduce ad un conflitto che determinerà però uno sconvolgimento radicale del quadro politico internazionale. Non solo la Germania sarà sconfitta, ma l’intervento decisivo degli Usa, sostituitisi ora alla Gran Bretagna nel ruolo di potenza leader, determinerà il definitivo tracollo dello stesso ordinamento mondiale e coloniale eurocentrico. L’esito di questa “guerra di Secessione dei bianchi” (Losurdo, 1996, p. 135 sgg. e p. 171) pone fine per il momento al confronto inter-imperialistico tra i grandi spazi continentali perché li mette fuori gioco tutti tranne uno: il Secolo Americano, iniziato con la guerra ispano-americana del 1898, comincia ad essere esportato in tutto il mondo, “globalizzato”. Ma questo tipo di conflittualità inter-imperialistica subisce una battuta d’arresto anche per un altro evento scaturito dalla guerra: la Rivoluzione d’Ottobre segna il crollo dell’impero zarista e la nascita di una nuova potenza che nella lotta all’imperialismo oppressore della libertà dei popoli – quelli dei paesi ricchi come quelli dei paesi più poveri – trova probabilmente la sua prima ragion d’essere. Con la sua sola presenza geopolitica, e nonostante enormi difficoltà, l’Urss conferisce forza ai movimenti di indipendenza nazionale nelle colonie e contribuisce attivamente a una grande ondata di decolonizzazione che si configura come un’enorme rivoluzione mondiale.

Ma la dinamica dell’imperialismo continentale non si è affatto esaurita. Dopo gli anni della grande Depressione, facendo propria l’eredità dalla più sanguinaria tradizione coloniale, il Terzo Reich di Hitler si proporrà di arrestare e invertire l’ondata di emancipazione planetaria dal giogo imperialista, proponendo dapprima agli Usa e alla Gran Bretagna una spartizione consensuale del mondo in nome della pari dignità Herrenvolk, per poi rilanciare le pretese imperialistiche della nuova Germania, tentando di costruire il suo impero coloniale nell’Oriente europeo e sul Continente intero. Ancora una volta il tentativo fallirà, e ancora una volta la dinamica imperialistico-continentale subirà una battuta d’arresto. All’intervento degli Stati Uniti, interessati a consolidare il loro ruolo di nuovo perno dell’equilibrio planetario, si aggiunge però questa volta l’attiva partecipazione dell’Urss di Stalin. Il sacrificio delle popolazioni sovietiche – le principali vittime del conflitto, con oltre 20 milioni di morti – nella “Grande guerra patriottica”, conferirà al loro Stato il rango di grande potenza mondiale.

E’ una nuova svolta per il XX secolo. L’emergere del conflitto Usa-Urss polarizzerà da questo momento l’assetto interstatale mondiale, dandogli la forma di una guerra che, sebbene “fredda”, è considerata da molti storici come la Terza guerra mondiale (cfr. Hobsbawm, 1998, p. 268). Ma “fredda” questa guerra non è alle periferie dei due grandi blocchi mondiali che scaturiscono dall’incontro di Yalta. Né “fredda” si può definire sul piano del confronto politico-ideologico, su quello tecnologico né tantomeno su quello economico.

Un’unica grande potenza imperialistico-continentale è rimasta: gli Stati Uniti. Un unico ostacolo si oppone alla loro conquista di un controllo imperialistico articolato su tutto il pianeta: il blocco socialista e la catena di solidarietà che esso, per sopravvivere, deve saper alimentare in ogni modo. La strategia politica internazionale statunitense rivolgerà da questo momento tutte le proprie forze ad abbattere il nemico. Siamo giunti al punto decisivo. Proprio qui infatti, nella dimensione economica di questa guerra, si cela il segreto di quella “globalizzazione” capitalistica che dilaga oggi su tutto il pianeta: essa è in realtà la conseguenza storicamente determinata dell’articolarsi della strategia imperialistica statunitense nella fase del suo confronto con il campo socialista.

Leggiamo ancora Thurow: “Gran parte dell’ultimo secolo”, dice, citando un’espressione cara a Reagan, “è stata caratterizzata dalla paura nei confronti dell’orso russo nella foresta” (Thurow, 1992, p. 3). Subito dopo la fine della guerra, con il trionfo della Rivoluzione cinese nel 1949, infatti, “sembrava che l’orso russo, con l’appoggio del nuovo trionfante dragone rosso cinese, volesse conquistare il mondo”. A questo punto, la strategia economica degli Usa diventa tutt’uno con quella politica: “gli aiuti alla Grecia e alla Turchia, la NATO, il riarmo del Giappone e della Germania Occidentale e la guerra di Corea furono tutti sforzi volti a contenere gli orsi e i dragoni della foresta”. Un primo scottante problema è costituito da Giappone e Germania, oggetto sinora di una campagna politico-ideologica ostile talmente massiccia che risultava estremamente difficile stabilire rapporti regolari. E però essi sono collocati in una posizione geopolitica di estrema delicatezza. Non è il caso perciò di infierire ulteriormente; piuttosto, è il ragionamento della lungimirante classe dirigente americana, “rendendo i paesi ricchi, li si sarebbe resi democratici” (16). E cioè, “se la loro ricchezza fosse dipesa dalla vendita sui mercati americani, essi sarebbero stati obbligati ad essere alleati degli Stati Uniti”.

E’ un discorso che non vale soltanto per Giappone e Germania, ma per tutta l’Europa e per il mondo intero. Per gli Stati Uniti, spiega Hobsbawm, “era politicamente urgente aiutare a crescere il più in fretta possibile paesi che in futuro potevano diventare loro concorrenti” (Hobsbawm, 1998, p. 324). Come ben sanno i comunisti italiani, il piano Marshall è stato un punto cardine della strategia imperialistica antisovietica degli americani. E però, man mano che le economie dei paesi alleati si risollevano, è inevitabile che essi comincino a competere con lo stesso Amico-Padrone, cercando di fare concorrenza alle sue aziende e conquistare maggiori quote nel mercato mondiale. Si innesca cioè la classica dinamica di conflittualità inter-imperialistica, destinata prima o poi a riversarsi anche sul piano politico. Le esigenze politiche, però, nella fase della Guerra fredda hanno sistematicamente avuto la meglio su quelle economiche, perché in tale fase il conflitto fondamentale non era più quello inter-imperialistico bensì quello di sistema, tra il mondo capitalistico e quello socialista. Si tratta di un principio di comprensione della storia che la sinistra “critica” ed economicista non afferrerà mai: nello stato d’eccezione, l’aspetto politico della contraddizione fondamentale prevale sempre e sistematicamente su quello economico. Ecco perché “le innumerevoli dispute commerciali” fra gli Usa, l’Europa e il Giappone sono state “tenute così senza sforzo sotto controllo durante gli anni della Guerra fredda” (Luttwack, 1999, p. 165). Infatti, “l’interdipendenza sviluppatasi con tanta facilità” in questa fase derivava dal fatto che “la cooperazione economica all’interno di ognuno degli schieramenti era il logico contraltare del confronto strategico in atto” (176).

Ecco allora che all’interno del mondo capitalistico le grandi potenze sono state costrette ad “ammorbidire le proprie posizioni economiche per preservare alleanze militari allo scopo di contenere l’Urss” (Thurow, 1992, p. 25). Thurow non ha dubbi su questo punto: dalla fine della guerra ad oggi, proprio “le esigenze militari hanno impedito che i conflitti economici esplodessero”. Ed ecco il punto cruciale: come evitare che questi conflitti prendessero piede e portassero alla restaurazione delle tendenze imperialistico-continentali e a nuovi tentativi di costituire un blocco economico del grande spazio europeo, magari ad egemonia francese, che concentrandosi nel confronto con gli Stati Uniti avrebbe indebolito la solidarietà antisovietica delle nazioni capitalistiche? Ci si riuscì imponendo tra questi paesi la formazione di una vasta area di libero scambio, mediante l’istituzione del sistema commerciale internazionale del GATT e ai diversi organismi di Bretton Woods, che riuscirono a contenere il ricorso al protezionismo mediante la generalizzazione del principio della “nazione più favorita”. Sorge in questa maniera un sistema, dice Thurow, di “keynesianesimo unilaterale globale” (56).

Gli unici che hanno la forza di imporre questo sistema sono ovviamente gli Stati Uniti, che ne saranno l’unico gestore e il principale beneficiario. E’ innegabile che, sin dalla fine della guerra, sono stati gli Usa a impegnarsi sino allo spasimo “per l’unificazione dell’economia mondiale negoziando la rimozione di ogni genere di barriera ai commerci, agli investimenti e al rilascio di licenze” (Luttwack, 1999, p. 99). Eppure, nota con stupore Luttwack, c’è pure qualcuno a cui “il semiaperto mercato globale di oggi appare naturale” (171-2). In realtà, esso non è il risultato di un’immanente dinamica sistemica del modo di produzione, come pensa la sinistra “rinnovata” italiana, bensì “è in larga misura… una creazione degli Stati Uniti, il risultato di oltre cinquant’anni di diplomazia americana, di pressioni e di volontà degli Stati Uniti”. E’ uno sforzo che dal 1948, che segna la nascita del GATT, di “round” in “round” ha abbattuto le barriere protezionistiche dei paesi capitalistici “talvolta articolo per articolo in un’estenuante serie di negoziati”. Specialmente gli anni del Kennedy Round, del 1964-67, sono stati decisivi: “l’odierna economia internazionale liberalizzata deve molto alle riduzioni tariffarie decise allora, che non avevano precedenti”. All’evidente vantaggio economico, però, gli Stati Uniti associano sin dall’inizio la predominante preoccupazione politica: “non fu un fatto casuale che l’originario trattato del GATT fosse promosso con tanto vigore dagli Stati Uniti agli albori della Guerra Fredda”, né tantomeno che “il Kennedy Round si concludesse proprio quando la Guerra fredda si stava avvicinando al punto di massima intensità”.

E’ una verità che proprio i portavoce dei vincitori della Guerra fredda dichiarano oggi apertamente: “il movente decisivo per la liberalizzazione dei commerci… fu sempre di ordine politico e strategico”. E cioè, in parole povere: “Il GATT era stato chiaramente concepito come il corrispettivo commerciale dell’alleanza strategica stretta dall’intero occidente contro l’Unione Sovietica”. Una verità che però una certa sinistra impolitica – che riesce ad elaborare la sconfitta subita in questa fase della lotta di classe solo nella forma infantile della rimozione e della negazione – “io non c’ero ed ho le mani pulite”, “quello non era il vero comunismo” – si ostina a non vedere.

10. Il XXI secolo: strategia della globalizzazione e strategia dei blocchi nel risveglio dell’imperialismo dei grandi spazi

Insomma: quella “globalizzazione” che viene spacciata come un’irresistibile transizione interna del capitalismo, tale da determinare un salto epocale ed imporre alla sinistra mondiale di tagliare i ponti con la nefasta eredità del leninismo, con lo Stato e il partito, si rivela nient’altro che l’esisto storicamente determinato della strategia imperialistica adottata dagli Stati Uniti nella fase del conflitto di sistema con l’Unione Sovietica e il campo socialista! Qual’è la teoria “all’altezza” della globalizzazione, quella di Lenin o quella dei suoi “critici” contestatori? Si può ancora dire che, pur nelle loro ottime intenzioni, siano effettivamente delle analisi di sinistra quelle appena viste, talmente subalterne all’ideologia dominante da pretendere – in nome del Nuovo – il disarmo e la resa incondizionata sul piano teorico e su quello pratico di ciò che rimane del movimento comunista internazionale?

Come sempre accade e come lo sguardo dialettico ci consente di vedere, però, la contraddizione di ieri albergava già in se stessa la contraddizione di oggi. Quando, con la vittoria totale dell’Occidente e il crollo del campo socialista, la fase storica del conflitto di sistema si esaurisce, la necessità politica di garantire ad ogni costo la solidarietà del sistema capitalistico mondiale viene improvvisamente meno. Da questo momento, la logica della conflittualità inter-imperialistica risulta nuovamente libera di dispiegare i suoi effetti. Siamo così giunti alla fase attuale. Non più costrette dalla camicia di forza delle superiori priorità politiche di sistema, le rivalità economico-politiche intrasistemiche che covavano nell’immensa area del libero scambio garantita dalla pax americana giungono a maturazione. Ecco allora che al persistere della strategia economica “globalizzante” americana comincia ad opporsi il consolidamento e la tendenziale emancipazione di nuove polarità imperialistiche. Interrotta per ben tre volte nel corso del XX secolo, ma mai realmente sconfitta, la dinamica dell’imperialismo continentale riprende adesso il suo corso, e nuovi grandi spazi geopolitici e geoeconomici si addensano. Celate alla massa dei consumatori dalla confusione ideologica, dal persistere dell’egemonia culturale e mediatica americana e dall’oggettiva indecisione circa le possibili future alleanze tra blocchi, alla “globalizzazione” statunitense si oppongono nuove e contrapposte strategie.

“La storia è tutt’altro che finita”, mette in guardia Thurow: “una nuova fase competitiva è in atto fin d’ora” (Thurow, 1992, p. 6). E Luttwack concorda: subito dopo la fine della Guerra fredda, tra le grandi potenze capitalistiche “le rivalità economiche si sono riattizzate” (Luttwack, 1999, p. 152). E’ la logica che abbiamo appena descritto: “non più costretti nella gabbia di una solidarietà forzata dal comune timore dell’Unione Sovietica, americani, europei e giapponesi hanno ingaggiato una serie di nuove dispute commerciali e hanno preso a contendersi il primato in diversi campi dell’attività economica significativamente definiti strategici”. E’ una guerra economica che ha le sue durezze, e la facilità con cui venivano raggiunti gli accordi di liberalizzazione degli scambi nella fase precedente è già oggi solo un ricordo. L’Uruguay Round del GATT si è protratto per dieci anni, e si è concluso tra mille difficoltà. Altrettanto aspri sembrano, a leggere i giornali di questi mesi, i contrasti nella nuova istituzione economica mondiale, il WTO. Le dispute commerciali tra gli Usa e l’Europa sono innumerevoli, sebbene risolte per lo più con la vittoria dei primi, la cui forza è ancora largamente preponderante. Esse spaziano per tutti i campi, dalla “clausola culturale” agli alimenti geneticamente manipolati. Insomma, “più che i progressi compiuti in assoluta tranquillità, le norme sono ormai le dispute aperte e gli esiti incerti”, mentre proliferano le “misure commerciali unilaterali” e nuove barriere non tariffarie vengono erette (172-4).

Chi dominerà il XXI, si chiede Thurow? Sebbene a suo avviso non sia sufficiente a garantire a lungo il primato economico, la potenza di fuoco degli Stati Uniti non è affatto una cosa da sottovalutare. Egli ammette il significato geoeconomico strategico della Guerra del Golfo, e lo stesso potrebbe dirsi oggi per quella contro la Jugoslavia (cfr. Arrighi, 1999). La fase storica in cui stiamo transitando è risolutiva per la definizione delle direttrici del nuovo secolo. In questi anni le grandi potenze e i nuovi blocchi devono decidere chi tra loro sarà il “manager” del nuovo sistema politico-economico mondiale. E’ chiaro infatti che esso necessita di qualcuno che si assuma il ruolo di leader, ed è chiaro che gli Stati Uniti sono fermamente intenzionati a succedere a loro stessi. “Nessun sistema”, dice Thurow, “può sopravvivere a lungo in questo modo” (Thurow, 1992, p. 285-7), nelle condizioni di un’accesa rivalità tra blocchi: l’emergere di una potenza leader stabilizzatrice è vitale per il funzionamento del capitalismo mondializzato. Ebbene, “Che piaccia o no, la leadership internazionale rappresenta l’unico ambito in cui la potenza militare diventa importante”. Cosa deriva da questa considerazione? Sembra verosimile che “poiché nel XXI secolo gli Stati Uniti saranno l’unica superpotenza militare, non esiste altra scelta che nominarli manager del sistema”.

A determinare questa scelta concorrono molti fattori, e non ultimo un’oggettiva convergenza di interessi, pur nella crescente rivalità, tra gli Usa e il blocco europeo. Ma anche il Giappone, che difficilmente riuscirà a saldare un blocco commerciale Asia-Pacifico e sta vivendo la sconfitta del suo modello capitalistico, può avere i suoi interessi ad un’alleanza (Cfr. Polato, 1999; Nukazawa, 1998). Ma a far convergere la scelta finale sugli Usa, in realtà, non sarà questo elemento, bensì un più elementare calcolo delle opportunità che riguarda la vita e la morte stessa degli Stati nazionali e dei blocchi. Cosa accadrebbe se la leadership americana fosse seriamente messa in discussione da un blocco concorrente, giunto al necessario livello di coerenza e potenza economico-politica? “Quasi per definizione”, chiarisce Thurow, “le superpotenze militari sono paesi che non possono venire diretti da altri”. Ne discende che, “se qualcun altro cercasse di prendere il controllo del sistema, gli Stati Uniti potrebbero semplicemente ricorrere alla forza militare per vanificare il tentativo” (Thurow, 1992, p. 287). Anche per Arrighi, l’”indiscussa supremazia” militare “è attualmente il solo vantaggio decisivo dell’industria americana sui mercati globali”, mentre il ruolo dell’apparato militar-industriale ha un peso sempre crescente sul complesso dell’economia statunitense (Arrighi, 1999, p. 36).

Certo, nel mondo dei sogni è possibile immaginare una situazione in cui gli Usa spartiscano ultraimperialisticamente e in amicizia i benefici economici di un’economia globalizzata, lasciando che altri Stati e blocchi erodano sempre maggiori quote di mercato alle loro aziende nei settori strategici, impedendo la crescita del tenore di vita dei cittadini americani abbienti e votanti. E però, commenta Thurow, “in pratica, è improbabile che tutto ciò avvenga” (Thurow, 1992, p. 287). “Se gli americani si troveranno a fare i conti con una serie di sconfitte”, infatti, “prima o poi faranno quadrato, escluderanno gli altri, o colpiranno coloro che, a ragione o no, essi riterranno essere i responsabili del loro fallimento”. Finché essi, come Stato nazionale, trarranno profitto dalla persistenza del libero scambio, tutto filerà liscio. Ma quando queste condizioni cambieranno, “gli Stati Uniti sono in grado di far saltare per aria il sistema economico mondiale del XXI secolo”, e non solo il sistema economico.

Comprendiamo a questo punto il significato del discorso di Samir Amin sul rapporto tra il livello del mercato e quello dell’”anti-mercato”, del potere, nonché la questione della territorialità. “Come non osservare”, chiede Amin, “che il successo della controffensiva americana, volta a ristabilire l’egemonia è fondata in gran parte sulla supremazia militare” (Amin, 1995, p. 48)? Come non vedere che, di fronte alla strapotenza bellica americana, gli europei “dimostrano ogni giorno che non possono fare nulla, né in Jugoslavia o nell’ex Urss, né nella Somalia, senza gli Stati Uniti”? La “globalizzazione” come forma specifica dell’imperialismo antisovietico americano si riaggiusta adesso per contenere le nuove rivalità inter-imperialistiche. Gli Usa spingono con ostinazione per tenere in piedi il sistema liberoscambista che li favorisce, aggredendo la sovranità nazionale altrui in nome della “libertà dei commerci” – come l’Inghilterra ai tempi della Guerra dell’oppio – nella consapevolezza della propria strapotenza militare.

Immaginiamo una completa emancipazione delle imprese dal controllo dei governi centrali. Il caos che ne seguirebbe sarebbe tale da generare fortissime ondate di malcontento sociale, oltre che tensioni internazionali. Ne seguirebbe “Il ripiegamento sulla triade… e l’apartheid generalizzato, unito a genocidi praticati per mantenere l’ordine, rassicurare i benestanti e proteggere le loro ricchezze” (58). Ma anche così, i blocchi contendenti finirebbero per “sbranarsi a vicenda”, e dovrebbero o mettersi d’accordo e scegliere un leader del sistema, oppure mettere sul tavolo il peso della potenza di fuoco, il peso dei loro arsenali militari. In un caso o nell’altro, uno e uno solo sarebbe il vincitore della partita. Ebbene, dice Amin, “lo scenario qui delineato costituiva il sogno di Reagan”.

11. Il nuovo wilsonismo

Proprio nei mesi scorsi abbiamo avuto modo di verificare come le analisi formulate da Lenin nei primi decenni del secolo respingano nella sostanza ogni tentativo di falsificazione. Cosa si capisce, senza l’ausilio della categoria di imperialismo, dell’aggressione che la NATO ha brutalmente perpetrato nei confronti della sovranità nazionale della repubblica jugoslava? La guerra contro questo Paese – del quale gli Stati Uniti hanno iniziato a pianificare lo smembramento sin dal 1982 (Chossudovsky, 1998, p. 274) – ha avuto come esplicito obiettivo l’instaurazione nei Balcani di un “protettorato” neocoloniale rivolto a far arretrare ancor di più le posizioni della Russia ormai in ginocchio, ribadendo il progetto del Secolo Americano e lanciando al contempo un avvertimento – nel momento in cui comincia a consolidarsi il polo imperialista europeo – agli alleati minori. Come non vedere poi che la saldatura di tutti questi elementi conduce oggettivamente, in un contesto di medio periodo, all’accerchiamento progressivo ma inesorabile della Cina?

Proprio le capacità di comprensione che la categoria di imperialismo dimostra nell’analisi della situazione concreta costituiscono dunque la migliore conferma della sua portata scientifica e della sua netta superiorità rispetto al concetto di “globalizzazione”. Questa categoria ci aiuta a vedere che il senso delle rinnovate spinte imperialistiche consiste in una nuova “lotta per la ripartizione territoriale del mondo”, e che la tanto celebrata unificazione della terra e del genere umano nasconde in realtà la “spartizione definitiva della terra”, il fatto che “il mondo per la prima volta appare completamente ripartito”, e non esistono più “terre non occupate sul nostro pianeta” (Lenin, 1994, passim).

Innumerevoli, si può dire, sono i nuclei problematici che Lenin, facendo tesoro dell’esperienza della guerra mondiale, riusciva a suo tempo e con i mezzi a sua disposizione a far emergere, e che ancora oggi abbiamo sotto gli occhi. La concentrazione della proprietà capitalistica e la formazione dei monopoli; l’affermazione del capitale finanziario con l’intreccio di banca e industria, e il conseguente emergere di un’oligarchia finanziaria che coopta gli stessi funzionari statali e sindacali; l’eccedenza di capitale e la necessità della spartizione economica del mondo tra i grandi cartelli, che chiamano gli Stati all’impegno politico-militare nella concreta occupazione del pianeta; la guerra generalizzata, infine, come inevitabile conseguenza di tutto ciò. Come si può negare poi l’attualità del problema del cosiddetto “socialsciovinismo”, che ha costituito la principale arma con la quale i centri di potere capitalistici hanno ad un tempo frantumato l’unità del soggetto antagonista all’interno del corpo nazionale e spezzato la sua solidarietà inter-nazionalistica? E’ però un altro il motivo su cui, per concludere questa discussione della categoria di “globalizzazione”, è necessario soffermarsi: è quello del cosiddetto “wilsonismo”, che costituisce il paradigma della forma oggi dominante dell’ideologia imperialistica e l’illustre antecedente della “globalizzazione” stessa.

Il presidente americano Wilson, iniziatore della politica dell’”interventismo democratico”, con la sua proposta di pace in 14 punti, la teoria della Open Diplomacy e il progetto della Società delle Nazioni susciterà le speranze dei riformisti, dei pacifisti borghesi e anche di molti socialisti. Lenin smaschera però con durezza il wilsonismo come arma ideologica dello specifico imperialismo statunitense. Esso è il tentativo di “dimostrare che pace e riforme sono possibili sotto l’imperialismo”, e che proprio il processo di “internazionalizzazione del capitale”, anzi, “attutirebbe le sperequazioni e le contraddizioni in seno all’economia mondiale”, garantendo la pace tra i popoli (Lenin, 1994, passim). Si tratta, come si vede, di una concezione del tutto analoga a quella del mito contemporaneo della “globalizzazione”: una concezione che rimuove la natura contraddittoria dell’espansione capitalistica, cercando di far passare per accidentali e temporanei, dovuti a cattive scelte di cattivi uomini politici, quei conflitti che Lenin mostra invece essere necessariamente generati dalla struttura stessa del potere imperialistico e della divisione capitalistica della proprietà.

Il “pacifismo” borghese e il “democraticismo” con cui gli Usa coprono e legittimano il loro progetto egemonico planetario, costituiscono il più subdolo dei pericoli per l’autonomia degli avversari dell’imperialismo. L’egemonia del wilsonismo si esercita infatti sullo stesso movimento operaio, dove trova la sua figura nel cosiddetto “kautskismo”. Pur criticando le posizioni socialscioviniste, Kautsky è interamente egemonizzato dall’ideologia borghese e si è collocato al di fuori sia della teoria marxista che del movimento rivoluzionario internazionale. Come i teorici borghesi riformisti, egli non fa che “nascondere la profondità delle contraddizioni dell’imperialismo”, e cela opportunisticamente il suo sorgere strutturale, all’interno delle nazioni, dall’appropriazione privata, dalla “padronanza” dei monopoli sulle classi lavoratrici e gli stessi capitalisti concorrenti. Ma egli cela soprattutto la dimensione internazionale di queste contraddizioni. In condizioni di capitalismo monopolistico coesistente con la libera concorrenza, infatti, si accelera il fenomeno dello sviluppo ineguale dei diversi rami della produzione come dei suoi diversi segmenti internazionali. Ecco che alcuni Stati o aree si sviluppano più in fretta, sino a mettere in discussione lo status quo dell’egemonia internazionale e della spartizione del globo. “La forza muta per il mutare dello sviluppo economico e politico”, e a questo punto che “tale mutamento sia di natura “puramente” economica, oppure extra-economica”, “militare”, è “questione secondaria”, soltanto formale. La lotta inter-imperialistica “oggi può essere pacifica, domani bellica, dopodomani nuovamente pacifica”, ma la sua essenza rimane la contraddizione e il conflitto, nei quali la guerra rimarrà dunque sempre implicita e pronta a passare dalla potenza all’atto.

Se comprendiamo come l’idea di un “imperialismo pacifico” costituisca una colpevole mistificazione, possiamo comprendere anche i pericoli che la categoria di globalizzazione – estrema figura delle posizioni wilsoniano-kautskiane – comporta, e l’enorme equivoco teorico che essa può ingenerare in tutta la sinistra, alle prese oggi con la più forte crisi di identità della sua storia. L’idea cioè che la lotta all’imperialismo possa risolversi in un vago e indeterminato antagonismo delle anime belle, nella rivendicazione di generici ideali “pacifisti” e “non-violenti”, e che nel conflitto tra l’imperialismo e la sovranità nazionale si possa scegliere una posizione “terzaforzista” e al di sopra delle parti. Parlare di “globalizzazione” sic et simpliciter, significa parlare di un imperialismo “senza violenza, non annessionista”, e dunque nasconderne la più intima natura, rendendosi subalterni alla “più raffinata e coperta (e perciò più pericolosa) propaganda per la conciliazione” con esso.

Le parole del giovane Gramsci dovrebbero ancora oggi metterci in allerta nei confronti della pretesa raffinatezza intellettuale delle analisi della “sinistra critica”: “La funzione, anticlassista e tendente al confusionarismo spirituale” di Wilson, il suo “incanto sociale”, ha spinto “molti socialisti, inconsciamente, a subordinare alle sue parole la concezione politica propria”, e confonderla “con le concezioni borghesi di equità e di giustizia”, laddove il progetto degli Usa, “arbitri della contesa internazionale”, consiste nel fondare “il modo di convivenza internazionale in regime di proprietà privata e di produzione capitalistica, più perfetto che si possa raggiungere”. Si tratta dunque di un’illusione, alla quale bisogna opporsi risolutamente: “Nessuna subordinazione degli ideali socialisti alle concezioni – siano pur sublimi alla stregua delle contingenze odierne, rappresentino pur la maturità dello sviluppo capitalistico – dei rappresentanti della borghesia” (Gramsci, 1972, pp. 317-21).

Nel migliore dei casi, infine, quello di un uso critico, la categoria di globalizzazione rivela al massimo una capacità descrittiva pari a quella della teoria dell’ultra-imperialismo. Questa sarà pure benintenzionata, ma non è assolutamente in grado di vedere la “lotta per l’egemonia” e per “la conquista di terre”, la “concorrenza di diversi imperialismi”, perché non comprende i fondamenti strutturali dell’imperialismo stesso. Essa si rivela perciò nient’altro che “un’ultra-stupidità” succube del riformismo borghese, perché cela con la tesi di una spartizione consensuale del mondo tra entità economiche disincarnate il fatto che “le alleanze “inter-imperialiste” o “ultra-imperialiste” non sono che un “momento di respiro” tra una guerra e l’altra” (Lenin, 1994, passim).

Le “gigantesche dimensioni” del capitale finanziario concentrato, che tesse “una fitta e ramificata rete di relazioni e di collegamenti” sottomettendo l’intero lavoro sociale complessivo; “l’inasprirsi della lotta” per la “spartizione del mondo e il dominio sugli altri paesi” e, in sottofondo, l’”entusiasmo “universale” per le prospettive offerte dall’imperialismo” e la “furiosa difesa ed abbellimento di esso”: è quello che in questi giorni stiamo vivendo sulla nostra pelle. Non è difficile aggiornare le parole di Lenin e capire come, ancora oggi, proprio questi siano “i segni della nostra età”.

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