L’autogestione Jugoslava

L’anno scorso è uscito in Jugoslavia, accompagnato da una grande pubblicità, il libro del principale “teorico” del revisionismo titoista, Eduard Kardelj, intitolato “Indirizzi di sviluppo del sistema politico di autogestione socialista”.

Le idee antimarxiste di questo libro sono state poste a fondamento di tutti i lavori del II Congresso del partito revisionista jugoslavo, che i titoisti, al fine di mascherarne il carattere borghese, hanno battezzato “Lega dei Comunisti di Jugoslavia”.

I titoisti e il capitalismo internazionale, come rilevato al VII Congresso del PLA, vantano il sistema di “autogestione” come “una via già pronta e sperimentata verso il socialismo” e se ne servono come di un’orma preferita nella lotta contro il socialismo, la rivoluzione e le lotte di liberazione.

Tenendo presente il pericolo che rappresentano queste concezioni, ho ritenuto necessario esprimere alcune idee a proposito di questo libro.

In Jugoslavia, come si sa, il capitalismo è stato pienamente instaurato, però questo capitalismo viene abilmente mascherato. La Jugoslavia sostiene di essere un paese socialista, ma di un tipo singolare che il mondo non avrebbe visto fino ad oggi! I titoisti si vantano pure che il loro Stato non ha niente in comune con il primo Stato socialista, uscito dalla Rivoluzione Socialista d’Ottobre e fondato da Lenin e Stalin sulla base della teoria scientifica di Marx ed Engels.

Sin dall’inizio, i rinnegati jugoslavi si sono allontanati dalla teoria scientifica del marxismo-leninismo sullo Stato socialista e hanno cercato di impedire l’instaurazione della dittatura del proletario, al fine di far imboccare alla Jugoslavia la via del capitalismo.

Ho già indicato in altra occasione che prima della liberazione della Jugoslavia, come dopo, il gruppo rinnegato titoista, mascherandosi, faceva finta di sostenere il sistema socialista instaurato in Unione Sovietica e si vantava di costruire il socialismo sulla base della teoria scientifica del marxismo-leninismo, mentre in realtà era contrario a questa ideologia e all’esperienza rivoluzionaria sovietica. La fondatezza di questa conclusione appare chiara anche dal contenuto del libro di Kardelj.

1 – Un rapido sguardo storico sulla via dei revisionisti titoisti

La Lotta di liberazione nazionale jugoslava, guidata dal Partito Comunista di Jugoslavia, si contraddistingue non solo per il valore e per il coraggio del popolo, ma anche per l’onestà degli autentici comunisti jugoslavi. Nel corso di questa lotta, tuttavia, nella direzione jugoslava cominciarono a manifestarsi tendenze sospette che facevano pensare, come apparve chiaramente più tardi, che per quel che concerne l’atteggiamento verso l’alleanza antifascista dell’Unione Sovietica, degli Stati Uniti e dell’Inghilterra, il gruppo titoista propendeva per gli Anglo-Americani. In quel periodo, noi avevamo costatato che la direzione titoista manteneva stretti legami con gli alleati occidentali, specie con gli inglesi, dai quali riceveva consistenti aiuti finanziari e militari. Nel medesimo tempo avevamo rilevato un ravvicinamento politico evidente fra Tito e Churchill ed i suoi emissari, in un momento in cui la lotta di liberazione nazionale jugoslava doveva essere strettamente collegata alla guerra di liberazione dell’Unione Sovietica, poiché la speranza della liberazione generale di tutti i popoli, per quel che riguarda il fattore esterno, era fondata appunto su questa guerra.

La direzione titoista manifestò ancor più chiaramente le sue tendenze contrarie all’Unione Sovietica alla vigilia della vittoria sul fascismo, quando l’Esercito Rosso, incalzando l’esercito tedesco, entrò in Jugoslavia per venire in aiuto alla lotta di liberazione nazionale. Soprattutto nel periodo in cui furono tratte le conclusioni di questa grande guerra fra i grandi e i piccoli Stati belligeranti, apparve evidente che la Jugoslavia titoista era appoggiata dall’imperialismo inglese e americano. In quel periodo, gli attriti diplomatici e ideologici fra l’Unione Sovietica e la Jugoslavia divennero più manifesti. Questi dissensi concernevano, fra l’altro, anche questioni territoriali. La Jugoslavia rivendicava dei territori al Nord, soprattutto ai suoi confini con l’Italia. Ma essa taceva a proposito dei confini meridionali, in particolar modo di quelli con l’Albania, del Kosovo e delle terre albanesi in Macedonia e nel Montenegro. I titoisti non potevano parlarne, poiché in questo modo avrebbero intaccato la piattaforma nazionalista sciovinista serba.

Ormai si sa che i dissensi della direzione jugoslava con Stalin avevano radici profonde. I punti di vista revisionisti del gruppo dirigente jugoslavo si erano cristallizzati molto tempo prima della liberazione, forse nel periodo stesso quando il Partito Comunista di Jugoslavia faceva parte del Komintern e si trovava in una profonda clandestinità sotto il regime dei kralj serbi. Sin da quei periodo, la sua direzione aveva manifestato concezioni deviazionistiche, trotzkiste, che il Komintern aveva denunciato immediatamente. Più tardi Tito “cancellò” queste condanne, giungendo al punto di riabilitare l’ex-segretario generale del Partito Comunista di Jugoslavia, Gorkich, il più grande deviazionista.

Dopo la liberazione della Jugoslavia, si prospettò una questione di grandissima importanza: in quale direzione si sarebbe orientata la Jugoslavia? Questa direzione, naturalmente, doveva dipendere in grande misura dalle concezioni marxiste-leniniste o revisioniste dei dirigenti del Partito Comunista di Jugoslavia. Essi si spacciavano per marxisti-leninisti. All’inizio, anche noi pensavamo che fossero tali. Però, in realtà, non solamente dalla loro attività nel suo complesso, ma anche dai loro atteggiamenti concreti nei nostri confronti, abbiamo rilevato che molte delle loro prese di posizione erano incompatibili con la teoria scientifica del marxismo-leninismo. Abbiamo costatato che essi si allontanavano sempre più dall’esperienza dell’edificazione del socialismo nell’Unione Sovietica.

La tendenza del gruppo dirigente jugoslavo con a capo Tito, Kardelj, Rankovich e Gilas, che apparve sin dal periodo della lotta clandestina ma che diventò ancor più manifesta dopo la liberazione della Jugoslavia, consisteva nel far sì che il Partito Comunista di Jugoslavia non si presentasse apertamente col suo nome, ma che si mascherasse, come in realtà lo fece, sotto il manto del cosiddetto Fronte popolare di Jugoslavia. Tale clandestinità veniva giustificata con il pretesto che “la grande e piccola borghesia delle città e delle compagne si sarebbe allarmata e spaventata” e si “sarebbe allontanata dal nuovo potere uscito dalla rivoluzione”, che “gli alleati anglo-americani temevano il comunismo”. Si facevano sforzi per convincere la borghesia che i comunisti non erano al potere, che il partito comunista esisteva realmente, ma che era, in certo modo, membro di un ampio fronte, di cui potevano far parte anche gli uomini di Mihailovich, Nedich, Stojadinovich, e di tutti gli altri “vich” reazionari della Jugoslavia.

Tito formò anche un governo provvisorio con Subascich, ex-primo ministro del governo del re in esilio a Londra, ma non lo lasciò governare a lungo. Sotto la costante pressione del popolo, egli fu costretto a liquidarlo. In quei periodo sosteneva che non aveva voluto Subascich, ma che glielo avevano imposto gli alleati, mentre più tardi accusò Stalin a proposito di questa questione. La verità è che Tito accettò Subascich per far piacere a Churchill, poiché non nutriva amicizia per Stalin.

Le concezioni di Tito e dei suoi compagni lasciavano intendere sin dall’inizio che questi non erano dei “marxisti duri”, come la borghesia chiama i marxisti coerenti, ma dei “marxisti ragionevoli”, che avrebbero strettamente collaborato con tutti gli uomini politici, vecchi e nuovi, borghesi e reazionari della Jugoslavia.

Il Partito Comunista di Jugoslavia, benché fingesse di essere nella clandestinità, agiva legalmente. Ma Rankovich e Tito non gli conferirono la forza e il ruolo dirigente che doveva avere, poiché non erano favorevoli alla costruzione socialista in Jugoslavia. Tito e Rankovich falsarono le norme marxiste-leniniste della costruzione e del ruolo del partito. Il Partito Comunista di Jugoslavia, sin dall’inizio, non fu edificato sulle basi del marxismo-leninismo e secondo i suoi insegnamenti. Questo partito, che sì era per così dire fuso nel Fronte Popolare di Jugoslavia, dettava legge insieme all’esercito, al Ministero degli Interni e alla Sicurezza dello Stato. Questo Partito, che aveva guidato la lotta dei popoli di Jugoslavia, dopo la guerra divenne un reparto degli organi statali di repressione quali erano l’esercito, il ministero degli interni e l’UDB. Insieme ad essi, il Partito diventò in realtà un organo repressivo delle masse lavoratrici, anziché un reparto d’avanguardia della classe operaia.

In seguito alla propaganda condotta e all’autorità che il Partito si era conquistato nel corso della Lotta di liberazione nazionale e nella prima fase della costruzione della Jugoslavia, all’indomani della guerra, la classe operaia jugoslava ebbe l’impressione che il partito si trovasse all’avanguardia. In realtà, esso non era l’avanguardia della classe operaia, ma di una nuova classe borghese che aveva appena cominciato ad affermarsi. Questa classe si basava saldamente sul prestigio della lotta di liberazione nazionale dei popoli di Jugoslavia per condurre a termine i propri fini controrivoluzionari, offuscando nel medesimo tempo le prospettive dell’edificazione della società nuova. Un simile partito degenerato avrebbe fatto imboccare alla Jugoslavia strade antimarxiste.

Questa via antimarxista dei titoisti Jugoslavi, del gruppo Tito-Kardelj-Rankovich, non poteva non essere in aperta opposizione con il marxismo-leninismo, con in partiti comunisti, con l’Unione Sovietica, con Stalin e con tutti i paesi a democrazia popolare che furono creati all’indomani della Seconda Guerra mondiale. Naturalmente, questo confronto si è sviluppato in modo graduale, per giungere finalmente al punto critico di separare il grano dal loglio.

E’ un fatto incontestabile che i popoli di Jugoslavia si siano battuti. La Jugoslavia, così come l’Albania, ha fatto dei grandi sacrifici. I dirigenti antimarxisti jugoslavi hanno speculato su questa lotta, hanno sfruttato davanti all’opinione pubblica, interna ed esterna, l’apprezzamento che l’unione Sovietica faceva della Jugoslavia, che essa considerava un’importante alleata sulla via marxista-leninista del socialismo.

Nelle loro relazioni con gli Stati a democrazia popolare appena isituitisi, i titoisti non tardarono a manifestare tendenze di dominio, espansionistiche ed egemoniche, nei confronti di tutti quei paesi, ma in particolar modo nei confronti del nostro. Essi, come lo sappiamo, tentarono di imporci i loro punti di vista politici, ideologici, organizzativi e statali, antimarxisti. Essi giunsero al punto di fare ripugnanti tentativi per trasformare l’Albania in una repubblica della Federazione jugoslava. In questo loro turpe e fallito tentativo i titoisti urtarono contro la nostra decisa opposizione. In un primo momento la nostra resistenza non si era ancora cristallizzata, poiché non sospettavamo che la direzione jugoslava avesse imboccato la via capitalista e revisionista. Ma con il passare di alcuni anni, allorché le sue tendenze egemoniche ed espansionistiche si delinearono chiaramente, noi ci siamo opposti ai titoisti in modo intransigente e senza riserve.

I titoisti cercarono di imporci la loro volontà ricorrendo a pressioni e ricatti di ogni specie. A tal fine essi organizzarono anche il complotto di Koçi Xoxe. Essi adottarono questa pratica imperialistica, anche se in misura minore, anche nei confronti di altri paesi, come la Bulgaria, l’Ungheria e la Cecoslovacchia. Tutti questi mostruosi atti stavano a dimostrare che la Jugoslavia non seguiva la via del socialismo, ma che era divenuta uno strumento del capitalismo mondiale.

Col passare dei giorni si vedeva sempre meglio che in Jugoslavia non si costruiva una società socialista di tipo leninista, ma si stava sviluppando il capitalismo. Nel frattempo i passi compiuti su questa via capitalista venivano mascherati con la ricerca di una presunta nuova forma specifica di “socialismo”. Proprio per questo la direzione jugoslava, con a capo Tito, Kardelj e Rankovich, cercando in certo qual modo di legalizzare “teoricamente” il suo tradimento, prelevò le più svariate idee dall’arsenale dei vecchi revisionisti consolidando così con tutti i mezzi il suo Stato di tipo fascista. L’esercito, il Ministero degli Interni, l’UDB, divennero onnipotenti.

Pur instaurando il capitalismo, la direzione revisionista jugoslava cercava di creare nelle masse del popolo l’impressione che in Jugoslavia non venissero traditi i fini della lotta, che vi esistesse uno Stato di indirizzo socialista, guidato da un partito comunista che difendeva il marxismo e che proprio per questo era in contrasto con l’Unione Sovietica, con Stalin, con i partiti comunisti e con i paesi a democrazia popolare.

Nel tentativo di difendere le loro posizioni assai scosse a causa del loro smascheramento davanti all’opinione pubblica interna e al movimento comunista e operaio internazionale, i titoisti, continuando la loro subdola politica, dichiararono che avrebbero intrapreso “serie” azioni per la costruzione del socialismo nelle campagne, per la collettivizzazione dell’agricoltura secondo i principi leninisti, e crearono a questo scopo le cosiddette zadrughe. Per rendersi conto di quanto serie fossero le intenzioni dei rinnegati titoisti di costruire il socialismo nelle campagne, basterà ricordare che le zadrughe furono soppresse prima ancora di essere create ed ora della collettivizzazione delle campagne jugoslave non e più rimasta traccia.

Fino al 1948, quando avvenne la rottura decisiva tra l’Unione Sovietica, i paesi a democrazia popolare e il movimento comunista internazionale, da una parte, e la Jugoslavia, dall’altra, quest’ultima si trovava già nella fase iniziale del capitalismo caotico, in una situazione di disordine politico, ideologico e economico estremamente grave. Ciò spinse il gruppo Tito-Kardelj-Rankovich ad agire più apertamente, ad accostarsi maggiormente al capitalismo mondiale, specie all’imperialismo americano, per poter conservare il potere e cambiare la situazione in suo favore.

Dopo il 1948 la Jugoslavia, travagliata da una grave crisi politica, ideologica ed economica, si trovò a un crocevia a causa della deviazione antimarxista della sua direzione. I rinnegati titoisti volevano, in certo qual modo, sedersi su due “seggiole”. Sulla “seggiola” del marxismo-leninismo, volevano restare solo in apparenza, solo per la forma, mentre sull’altra seggiola, quella capitalista-revisionista, volevano insediarvisi bene, ma per giungere a questo occorreva necessariamente un certo tempo. Il periodo che va dal 1948 a questa parte è un periodo torbido e fortemente travagliato da una grande crisi, dalla degenerazione e dalla confusione.

Davanti al gruppo rinnegato Tito-Kardelj-Rankovich si poneva il quesito: come mantenere il potere e reprimere ogni resistenza del proletariato e dei popoli di Jugoslavia, che si erano battuti per il socialismo, in amicizia e piena unità con l’Unione Sovietica e con i paesi a democrazia popolare. A tal fine i revisionisti jugoslavi s’impegnarono innanzi tutto a liquidare anche quel poco di marxista-leninista che era rimasto nel partito e a transformarlo in uno strumento della loro ideologia e della loro politica borghese-revisionista, a privarlo di qualsiasi funzione dirigente, trasformando inoltre la classe operaia in una massa inerte, incapace di rendersi conto del tradimento e di reagire come forza politica determinante della rivoluzione. Le norme del centralismo democratico nel partito furono violate. Successivamente il partito fu messo alle dipendenze dell’UDB, impiegata dai titoisti come mezzo di repressione contro tutti gli elementi contrari alla svolta regressiva antimarxista. Il partito fu “epurato” di tutti gli elementi fedeli al socialismo. Benché avesse conservato in apparenza alcune norme concernenti le elezioni, le riunioni, le conferenze, in realtà la sua direzione burocratica concentrò nelle proprie mani tutto il potere in questo presunto partito marxista-leninista, trasformandolo in un semplice esecutore dei suoi ordini e di quelli della Sicurezza di Stato. Il Partito Comunista di Jugoslavia finì per cambiare interamente il suo aspetto, perdendo qualsiasi caratteristica di partito d’avanguardia della classe operaia, di forza politica dirigente della società. Questa fu una grande vittoria per il capitalismo, per la borghesia estera ed interna.

Per salvare il loro dominio, i rinnegati titoisti dovevano liquidare senza rumore il potere emerso dalla lotta di liberazione nazionale e costruire un altro potere, una feroce dittatura fascista.

In altri termini, il gruppo dirigente Tito-Kardelj-Rankovich si mise a liquidare tutte le caratteristiche marxiste-leniniste della rivoluzione e a cercare nuove presunte vie “socialiste”, in realtà capitaliste, nel campo economico, nella politica interna ed estera, nell’istruzione pubblica e nella cultura e in tutti gli altri settori della vita. In queste circostanze, gli organi della Sicurezza di Stato e l’esercito jugoslavo divennero l’arma preferita e spietata nelle mani di questo pugno di rinnegati, che puniva in modo draconiano chiunque osasse denunciare il loro tradimento. Ebbero inizio le persecuzioni e le uccisioni in massa di tutti i sani elementi marxisti-leninisti. I terribili campi di concentramento, fra l’altro anche quello di Goli Otok, si riempirono di detenuti e di deportati.

La situazione economica in quel periodo si presentava in Jugoslavia molto grave a causa della distruzione dell’economia durante la guerra, a causa della politica corrotta della direzione jugoslava, per il fatto che, dopo la rottura di tutte le relazioni con l’Unione Sovietica, la Jugoslavia non riceveva più i cospicui aiuti che aveva ricevuto nei primi anni successivi alla liberazione ed anche per il fatto che non poteva saccheggiare più le risorse dei paesi a democrazia popolare, come l’Albania, attraverso le società “miste”, istituite su basi non eque e che andavano a vantaggio di una sola delle parti, della Jugoslavia.

Certo, i rinnegati jugoslavi non potevano uscire dalla crisi unicamente con il terrore. In quanto agente matricolato del capitalismo mondiale, la direzione titoista sollecitò immediatamente il suo aiuto, e questi, soprattutto l’imperialismo americano, si mostrò pienamente disposto ad accordare a Tito e compagni tutti gli aiuti e tutta l’assistenza necessaria per salvarli e trasformarli in un importante strumento nella lotta contro il socialismo, la rivoluzione e i movimenti di liberazione. Le potenze imperialiste aspettavano con impazienza questa svolta, poiché proprio per questa si erano preparate durante la guerra. Perciò esse non mancarono di offrire loro non solo ingenti “aiuti” economici, ma anche un forte appoggio politico-ideologico. Esse fornirono loro anche armi ed equipaggiamenti militari di ogni genere, e li vincolarono anche con la NATO attraverso il Patto Balcanico.

Durante il primo periodo, specie nel campo dell’industria e dell’agricoltura, la Jugoslavia fu “aiutata” attraverso gli investimenti delle società straniere.

Nel campo dell’industria, in cui l’imperialismo degli Stati Uniti d’America si mostrò particolarmente “generoso”, il lavoro ebbe inizio con “gli aiuti” per il ripristino delle vecchie fabbriche esistenti affinché queste fossero messe più o meno in condizione di produrre e che questa produzione fosse sufficiente a mantenere in piedi il regime borghese-revisionista in via di cristallizzazione e che si era orientato verso il capitalismo mondiale.

Il regime titoista doveva liquidare anche quel sistema zoppicante della collettivizzazione dell’agricoltura che era sorto in diverse economie contadine e creare un sistema nuovo, in cui i Kulak e i grandi proprietari di terre fossero nuovamente avvantaggiati. Per la ridistribuzione delle terre furono escogitate forme e maniere idonee a ripristinare la vecchia classe dei kulak, senza causare gravi torbidi nel paese. Lo Stato adottò una serie di misure capitalistiche, ad esempio la soppressione delle stazioni delle macchine e trattori e la vendita dei loro macchinari ai contadini ricchi, in grado di acquistarli, nonché l’imposizione di gravi tasse agli agricoltori. Le aziende agricole statali furono ugualmente trasformate in imprese capitaliste, in cui furono investiti anche capitali stranieri, e così via.

Dal capitale straniero trassero grande vantaggio i commercianti e gli industriali del paese ai quali furono fatte rilevanti concessioni.

Queste misure dimostravano, senza alcun dubbio, che questo “socialismo” che stava costruendo la Jugoslavia non era altro che la via dell’integrazione nel capitalismo.

Così fu spianato il terreno alla penetrazione dei capitali stranieri, in misura e grado sempre maggiore, in un ambiente politico, ideologico e organizzativo molto adatto al capitalismo mondiale, il quale, aiutando il regime titoista, se ne sarebbe servito poi come di un ponte di passaggio per introdursi negli altri paesi a democrazia popolare.

Questo orientamento politico, ideologico ed economico della Jugoslavia titoista verso il capitalismo, fece sì che la lotta di classe prendesse in questo paese un altro indirizzo e si sviluppasse non come forza motrice della società socialista, ma come forza motrice nella lotta tra classi avversarie, come avviene in ogni Stato capitalista dominato dalla dittatura borghese. Lo Stato borghese-revisionista titoista rivolse la lotta di classe in Jugoslavia contro gli elementi progressisti della classe operaia, contro i comunisti che si opponevano alla sua linea di tradimento.

Il centralismo democratico non tardò ad essere liquidato anche nel campo dell’amministrazione economica e statale. E’ vero che in Jugoslavia si era proceduto anche alla nazionalizzazione di alcune fabbriche, il commercio estero era stato proclamato monopolio dello Stato e si diceva che si stava attuando il principio del centralismo democratico nell’organizzazione e nell’attività della Stato e del partito. Questi provvedimenti, che sembravano di carattere rivoluzionario, non erano né completi né coerenti. Il centralismo in Jugoslavia non aveva il vero significato leninista secondo cui tutta la vita economica e politica della società doveva svilupparsi combinando la direzione centralizzata con l’iniziativa creatrice degli organi locali e delle masse lavoratrici, ma mirava invece a creare una forza dittatoriale di tipo fascista, capace di imporre dall’alto ai popoli della Jugoslavia la volontà del regime al potere. Queste misure iniziali, vantate come presunte tendenze socialiste, assunsero dopo alcuni anni un evidente indirizzo antimarxista, controrivoluzionario. L’intera organizzazione statale e l’attività dello Stato assunsero nel campo economico caratteristiche capitalistiche, in aperto contrasto con l’esperienza fondamentale dell’edificazione socialista nell’Unione Sovietica di Lenin e Stalin.

Nei primi anni successivi al 1948 nell’attività dello Stato jugoslavo era applicato, si può dire, il principio del centralismo per il fatto che la Federazione della Jugoslavia era carica di oneri gravi e difficili, che non avrebbe potuto assolvere nelle condizioni di decentralizzazione. La situazione esigeva l’applicazione del centralismo, poiché in seno alla Federazione esistevano le repubbliche e ciascuna di esse, avendo la propria corrente politica nazionalista, cercava di staccarsene. Questa specie di centralismo era però un centralismo burocratico; i piani economici venivano stabiliti dall’alto senza essere discussi alla base, non erano studiati e non miravano ad uno sviluppo armonico dei vari rami dell’economia delle repubbliche e delle regioni della Federazione, gli ordini erano arbitrari e venivano eseguiti ciecamente, i prodotti venivano ammassati ricorrendo alla forza. Da questo caos, in cui l’iniziativa degli organi locali del partito e dello Stato come pure quella delle masse lavoratrici mancavano interamente, dovevano immancabilmente nascere, come del resto nacquero, delle opposizioni che furono represse con il terrore e il sangue.

Questo stato di cose era stimolato anche dagli Stati capitalisti, che avevano preso sotto la loro egida il regime titoista per dare alla Jugoslavia un indirizzo capitalistico. Approfittando di questa situazione, i vari imperialisti erano in gara fra loro chi avrebbe allungato più le mani su questo stato imbastardito per imporgli, in compenso dei crediti che gli concedevano, anche i loro punti di vista politici, ideologici e organizzativi.

I capitalisti stranieri, che appoggiavano il gruppo rinnegato titoista, erano convinti che questo gruppo sarebbe stato al loro servizio, ma intuivano anche la necessità di creare in Jugoslavia, una volta superata la situazione torbida e caotica esistente, uno stato di cose più stabile. Altrimenti non sarebbero stati sicuri degli ingenti investimenti già fatti e di quelli che pensavano di fare nel futuro.

Al fine di creare quella situazione auspicata dal capitalismo, si doveva procedere alla decentralizzazione della direzione dell’economia e si dovevano riconoscere e difendere a rigor di legge i diritti dei capitalisti, che investivano enormi somme nell’economia di questo Stato.

La direzione titoista comprendeva bene che il capitalismo mondiale desiderava vedere la Jugoslavia, come strumento nelle sue mani, prendere la forma più adatta ad ingannare gli altri. Di conseguenza non poteva accettare un regime palesemente fascista e sanguinario, come quello instaurato dagli antimarxisti Tito-Kardelj-Rankovich. Per questo motivo il gruppo Tito-Kardelj, nel 1967, prese le dovute misure e liquidò il gruppo di Rankovich incolpandolo di tutti i misfatti perpetrati dal regime titoista fino a quel periodo.

Con la liquidazione di Rankovich, la lega dei “comunisti” di Jugoslavia non uscì dalla grave crisi nella quale si era immersa. Essa continuò ad essere trattato sempre secondo i vecchi punti di vista titoisti, in base ai quali la lega doveva conservare solo la maschera di “comunista” senza svolgere però un ruolo dirigente nell’attività statale, nell’esercito, nell’economia. I titoisti cambiarono al Partito perfino il nome chiamandolo “Lega dei Comunisti” per dargli, secondo loro, un autentico nome “marxista” prelevato dal vocabolario di Karl Marx. A questa sedicente “Lega dei Comunisti” non riconobbero ufficialmente che una funzione d’educazione. Ma anche questa funzione era inesistente poiché la società jugoslava, dondolata con una propaganda politica e ideologica presunta marxista-leninista nella culla della cosiddetta “Lega Socialista di Jugoslavia”, finì per degenerare ed imboccare la via capitalista.

Benché uscita dalla clandestinità, in seguito alla decentralizzazione capitalista, il partito revisionista jugoslavo si fuse in quella specie di pluralismo ideologico, che più tardi doveva chiamarsi sistema “democratico”. Principale obiettivo era quello di fare sì che dopo la trasformazione del partito in un partito borghese, si cristallizzassero totalmente i tratti capitalistici dello sviluppo economico del paese.

Fu così creato in Jugoslavia il terreno adatto allo sbocciare delle teorie anarcosindacaliste, contro le quali avevano combattuto Marx, Engels, Lenin e Stalin. In queste condizioni fu inventata la teoria pseudomarxista-leninista del sistema politico dell’”autogestione socialista”, che Kardelj ha trattato nel suo libro.

Mi sono prolungato un poco sull’aspetto storico dell’evoluzione della Jugoslavia sulla via revisionista, non perché questi problemi ci sono sconosciuti, ma per mettere meglio in luce la falsità del pensiero “teorico” di Kardelj, il quale, essendo complice di Tito nel grande tradimento alla rivoluzione e al socialismo, non può fare a meno di far passare il nero per bianco e il capitalismo per socialismo. Ora, vedendo l’ignobile sviluppo a cui hanno ridotto il loro paese, questi rinnegati tentano di giustificare “teoricamente” la caotica situazione da loro stessi creata. Solo così si possono spiegare gli oscuri pensieri di Kardelj. Altrettanto confuse sono le sue “teorie” quanto è caotica la realtà jugoslava. E non poteva essere diversamente.

2 – Il sistema di “autogestione” nell’economia

La teoria e la pratica dell’”autogestione” jugoslava sono una negazione palese degli insegnamenti del marxismo-leninismo e delle leggi generali dell’edificazione del socialismo.

Il “socialismo autogestionario” in economia ha come fondamento l’idea secondo cui il socialismo non potrebbe essere costruito attraverso la concentrazione dei mezzi di produzione nelle mani dello Stato socialista, attraverso la creazione della proprietà statale come la forma più alta della proprietà socialista, ma attraverso lo spezzettamento della proprietà statale socialista in proprietà di singoli gruppi di operai, i quali provvederebbero direttamente alla sua “amministrazione”. Marx ed Engels, fin dal 1848, rilevavano che

“il proletariato si serve del suo dominio politico per carpire gradualmente alla borghesia tutto il capitale, per centralizzare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, vale a dire del proletariato organizzato come classe dominante”. (K. Marx-F. Engels, Opere scelte, Vol. 1, p. 42, Tirana 1975.)

Lo stesso aveva ribadito anche Lenin quando combatteva duramente i punti di vista anarcosindacalisti del gruppo antipartito dell’”opposizione operaia”, che voleva consegnare le fabbriche agli operai e assegnare la direzione e l’organizzazione della produzione non allo Stato socialista, ma ad un sedicente “Congresso di produttori”, in quanto rappresentante dei singoli gruppi di lavoratori. Lenin considerava questo punto di vista

“…in pieno contrasto con il marxismo e il comunismo” (V. I. Lenin, Opere, vol. 32, p. 283.).

Egli rilevava che

“qualsiasi legalizzazione, diretta o indiretta, della proprietà degli operai di una singola fabbrica o di una singola professione sulla loro produzione, oppure qualsiasi legalizzazione del loro diritto di indebolire o impedire gli ordini del potere generale dello Stato, è un distorcimento molto grande dei princìpi fondamentali del potere dei soviet e una rinuncia totale al socialismo” (V. I. Lenin, “Sul democratismo e il carattere socialista dei potere dei soviet”).

Fin dal giugno 1950, quando Tito presentò all’Assemblea Popolare della Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia la legge sull’”autogestione”, sviluppando i suoi punti di vista revisionisti sulla proprietà nel “socialismo”, aveva detto fra l’altro: “D’ora in poi la proprietà statale dei mezzi di produzione, le fabbriche, le miniere, le ferrovie, passeranno gradualmente nella forma più alta della proprietà socialista; la proprietà statale è la forma più bassa della proprietà sociale e non la più alta…”; fra “gli atti più caratteristici di un paese socialista”, “c’è il passaggio delle fabbriche e delle altre imprese economiche dalle mani dello Stato nelle mani degli operai per essere gestite da loro…”, poiché così sarà realizzata “la parola d’ordine dell’azione del movimento operaio – le fabbriche agli operai” (Le fabbriche agli operai, Prishtina 1951, pp. 37, 19, 1.).

Queste tesi di Tito somigliano come due gocce d’acqua ai punti di vista reazionari dell’”opposizione operaia” anarcosindacalista, che Lenin aveva a suo tempo smascherato ed anche a quelli di Proudhon, il quale, nella sua opera “Che cos’è la proprietà?”, affermava che “il prodotto spontaneo di un’unità collettiva… può essere considerato come il trionfo della libertà… e come la forma rivoluzionaria più grande esistente e che può essere contrapposta al potere”. Oppure, ecco quanto diceva uno dei capi della IIa Internazionale, Otto Bauer, nel suo libro “La via verso il socialismo”: “Chi dunque dirigerà nel futuro l’industria socializzata? Il governo? No! Se il governo dovesse dirigere tutti i rami dell’industria senza eccezione, diverrebbe troppo potente rispetto al popolo e rispetto alla rappresentanza nazionale. Una tale crescita del potere governativo sarebbe pericolosa per la democrazia” (Otto Bauer. “La via verso il socialismo”, p. 18, Parigi, 1919).

In unità di vedute con Tito, anche E. Kardelj rileva nel suo libro che: “La nostra società è costretta ad agire così dal momento che essa è decisa ad applicare l’autogestione e la socializzazione autogestionaria della proprietà sociale, che è contraria alla perpetuazione della proprietà dello Stato nei rapporti socialisti di produzione” (Tutte le citazioni del libro di E. Kardelj sono state tratte dalla traduzione in lingua albanese della redazione delle Edizioni di Prishtina nel 1977 (nota della Casa Editrice “8 Nentori”, Tirana)). Ciò vuol dire che in Jugoslavia è stato instaurato il sistema della proprietà privata e non esiste la proprietà socialista di Stato, la proprietà di tutto il popolo.

Le cose stanno del tutto diversamente nel nostro paese, in cui questa proprietà comune socialista è diretta dallo Stato di dittatura del proletariato con la partecipazione della classe operaia e delle masse lavoratrici in giuste forme, centralizzate, pianificate dal basso e orientate dall’alto.

La via della decentralizzazione dei mezzi di produzione, secondo le idee anarcosindacaliste dell’”autogestione” operaia, in sostanza, non è altro che un modo raffinato per conservare e consolidare la proprietà privata capitalista dei mezzi di produzione, ma in una forma mascherata come “proprietà amministrata da gruppi di operai”. Infatti tutti i termini ingarbugliati e oscuri inventati dal “teorico” Kardelj nel suo libro come “l’organizzazione fondamentale del lavoro associato”, “l’organizzazione complessa del lavoro associato”, “i consigli operai dell’organizzazione fondamentale o complessa del lavoro associato”, “le comunità autogestionarie degli interessi”, ecc., ecc. e che sono state sancite anche nella legislazione dello Stato capitalista jugoslavo, non sono altro che una facciata inverniciata, al fine di nascondere alla classe operaia la negazione del diritto di proprietà dei mezzi di produzione che le spetta, il suo selvaggio sfruttamento ad opera della borghesia.

Questa proprietà privata esiste in Jugoslavia non solo sotto forma mascherata ma anche nella sua forma comune, sia in città che nelle campagne. Lo ammette anche Kardelj nel suo libro quando dice che “particolare importanza rivestono nella nostra società anche certi diritti come… il diritto alla proprietà personale, come pure, entro certi limiti, alla proprietà privata (p. 177). Kardelj si sforza invano di mitigare l’effetto negativo che potrebbe avere l’ammissione aperta del diritto di proprietà privata, sia pure sotto la forma della piccola produzione, in quanto questa, come diceva Lenin, genera ogni giorno e ogni ora il capitalismo. I revisionisti jugoslavi hanno emanato leggi speciali per incoraggiare l’economia privata, leggi che riconoscono ai cittadini il diritto “di fondare imprese” e di “impegnare mano d’opera”. Nella Costituzione jugoslava si afferma esplicitamente che “I privati hanno la stessa posizione economica e sociale, gli stessi diritti e gli stessi obblighi che hanno anche i lavoratori delle organizzazioni economico-sociali”.

La piccola proprietà privata domina in pieno nell’agricoltura jugoslava, in cui ricopre circa il 90% della superficie della terra arabile. Ben 9 milioni di ettari di terra appartengono al settore privato, mentre oltre il 10% ossia 1,15 milioni di ettari appartengono al settore capitalista monopolista cosiddetto sociale. Più di 5 milioni di contadini lavorano in Jugoslavia nelle terre del settore privato. La campagna jugoslava non si è mai incamminata sulla via della vera trasformazione socialista. A questo riguardo Kardelj non dice neppure una parola nel suo libro, evitando così di trattare il problema riguardante l’estensione del suo sistema “autogestionario” all’agricoltura. Ma se egli pretende di costruire il socialismo attraverso questo sistema, allora come mai ha dimenticato di “costruire il socialismo” anche in agricoltura, che rappresenta circa la metà dell’economia?. La teoria marxista-leninista c’insegna che il socialismo si edifica sia in città che nelle campagne non sulla base della proprietà capitalista statale, della cosiddetta proprietà amministrata da gruppi di operai, o della proprietà privata in forma aperta, ma solo sulla base della proprietà sociale socialista dei mezzi di produzione.

In Jugoslavia è ammessa la proprietà privata della terra da 10 fino a 25 ettari (V. Vasich. “La politica economica della Jugoslavia”, pubblicazione dell’Università di Prishtina, 1970). Ma la legge jugoslava che permette la compravendita della terra, la sua concessione in affitto e la sua ipoteca, la compravendita delle macchine agricole e il lavoro a giornate in agricoltura, ha dato l’opportunità alla nuova classe borghese della campagna, alla classe dei kulak, di ampliare ai danni delle masse contadine povere le superfici delle terre, di aumentare i mezzi di lavoro, i trattori e gli autocarri, e di conseguenza di accrescere ed intensificare lo sfruttamento capitalistico.

I rapporti di produzione capitalistici si sono talmente estesi nell’economia jugoslava, che perfino i capitalisti e le società straniere trovano ormai campo libero d’azione per farvi investimenti e per sfruttare, congiuntamente alla borghesia locale, la classe operaia e le altre masse lavoratrici jugoslave. Il sistema jugoslavo di “autogestione” può a giusta ragione essere definito un potere di cooperazione del capitalismo jugoslavo con il capitalismo americano e gli altri capitalisti. La loro associazione investe tutto il patrimonio jugoslavo: fabbriche, comunicazioni, alberghi, alloggi, e perfino lo spirito degli uomini. Se la Jugoslavia ha fatto qualche progresso, ciò non è dovuto affatto al sistema di “autogestione”, come vogliono dare ad intendere i revisionisti titoisti. In Jugoslavia sono stati versati sotto forma di investimenti, crediti e “aiuti”, ingenti capitali del mondo capitalista, che costituiscono una parte rilevante della base materiale del sistema capitalista-revisionista jugoslavo. L’indebitamento della Jugoslavia ammonta a oltre 11 miliardi di dollari. Essa ha ricevuto dagli Stati Uniti d’America crediti per più di 7 miliardi di dollari.

La borghesia internazionale, non senza uno scopo ben determinato, ha poggiato il sistema “autogestionario socialista” jugoslavo su una simile base materiale e finanziaria. Le grucce del capitale occidentale hanno aiutato questo sistema a reggersi in piedi come un modello di conservazione del sistema capitalista con etichette pseudosocialiste.

I capitalisti stranieri, con i loro investimenti, hanno contribuito in Jugoslavia numeroso opere industriali che producono articoli dai migliori ai peggiori. I prodotti migliori ovviamente sono venduti all’estero e pochissimi invece all’interno. Benché all’estero esista una forte superproduzione capitalista e tutti i mercati siano accaparrati dagli stessi capitalisti che hanno fatto investimenti in Jugoslavia, questi vendono ugualmente la merce migliore sui loro mercati procurandosi ingenti utili, per il fatto che la mano d’opera in Jugoslavia è a buon prezzo, i prodotti hanno un basso costo di produzione rispetto ai paesi capitalisti dove i sindacati, più o meno, rivendicano al capitale alcuni vantaggi a favore degli operai, I migliori prodotti che escono dalle fabbriche vengono prelevati dalle multinazionali, che operano anche in Jugoslavia. Ma oltre agli utili ricavati attraverso questa via, gli investitori stranieri si procurano altri profitti dagli interessi dei capitali che hanno investito in Jugoslavia. Essi ritirano spesso questi profitti anche sotto forma di materie prime grezze o elaborate. Nel suo libro il demagogo Kardelj parla molto del sistema “autogestionario”, ma mantiene il più assoluto silenzio sulla presenza del capitale straniero e il grande ruolo che esso svolge nel mantenimento in piedi di questo sistema.

Nei paesi borghesi, dice Kardelj, il vero Potere si trova e ” … si manifesta innanzi tutto nella connessione del potere esecutivo statale con i cartelli politici fuori del parlamento… Parallelamente all’incremento della forza del potere interno extra parlamentare, – prosegue Kardelj, – gli attuali rapporti sociali nei paesi capitalisti con un elevato grado di sviluppo hanno come caratteristica anche un fenomeno nuovo – la creazione del potere extraparlamentare internazionale, cioè mondiale” (p. 54). Con questo Kardelj intende provare che “l’autogestione jugoslava si sarebbe salvata da questa situazione. Mentre, come l’abbiamo spiegato sopra, la realtà è diversa: l’”autogestione. jugoslava è una congerenza capitalistica, jugoslava e straniera. I capitalisti stranieri, cioè le società, i trust e tutti gli altri investitori hanno, in Jugoslavia, lo stesso potere decisionale che ha il potere jugoslavo sulla politica e sullo sviluppo generale del paese.

Infatti, le cosiddette imprese “autogestionarie”, piccole o grandi, sono obbligate a tenere conto delle esigenze dell’investitore straniero. Questo investitore porta con sé le sue leggi, che impone allo Stato jugoslavo, ha i suoi diretti rappresentanti in queste imprese miste, ha i suoi rappresentanti oppure esercita la sua influenza nella Federazione. In realtà l’investitore impone direttamente o indirettamente la sua volontà alla Federazione stessa, all’impresa o alla società mista. E’ proprio questo che cerca di nascondere l’”autogestione”. Questo mascheramento, questo tour de passe-passe (in francese nel testo), come dicono i francesi, vuole fare Kardelj per “dimostrare” l’assurdità che l’”autogestione “jugoslava è un socialismo autentico.

Ma quello che egli tenta di negare nel suo libro, lo ammette con numerosi fatti la stampa quotidiana occidentale e perfino l’agenzia jugoslava di stampa TANJUG, che il 16 agosto scorso dava notizia della pubblicazione di un nuovo regolamento della Vece esecutiva federativa concernente appositamente gli investimenti stranieri in Jugoslavia. Con questo regolamento i diritti degli investitori capitalisti stranieri in Jugoslavia vengono ulteriormente ampliati. “Secondo questa legge, rileva l’agenzia, i partner stranieri, in base all’accordo stipulato con le organizzazioni del lavoro socializzato del paese, possono effettuare i loro investimenti sotto forma di valuta, di attrezzature, di materie semilavorate e di tecnologia. Gli investitori stranieri hanno gli stessi diritti delle organizzazioni del lavoro socializzato del paese che investono i loro mezzi in qualche altra organizzazione di lavoro associato”.

Più avanti la TANJUG rileva che “con questo regolamento si prevede un maggiore interesse (da parte degli stranieri), poiché garantisce l’attività economica comune a lunga scadenza. Inoltre, praticamente ora non c’è campo in cui gli stranieri non possano investire i loro mezzi all’infuori delle assicurazioni sociali, del commercio interno e delle attività sociali”.

E’ difficile ad un paese vendersi più di così al capitale straniero. E malgrado questa realtà profondamente capitalista, il “comunista” Kardelj ha l’impudenza di affermare che: “…la nostra società ha assunto un contenuto e una struttura socio-economica singolare molto più solida, edificata su rapporti di produzione socialisti e autogestionari…” i quali “rendono possibile e garantiscono lo sviluppo sempre più libero, indipendente e autogestionario della nostra società”! (pp. 7-8).

Nel suo libro Kardelj pone in primo piano l’individuo in quanto principale elemento della società, elemento che produce, elemento che ha diritto di organizzare e di distribuire la produzione. Secondo lui quest’elemento, nel sistema di “autogestione”, socializza il lavoro nelle imprese ed esercita la sua direzione attraverso i cosiddetti consigli di operai, che vengono “eletti” dagli operai e questi, a sentir lui, assieme ai funzionari gestionari designati, regolerebbero la sorte dell’impresa, del lavoro, delle entrate e via dicendo.

Questa è una forma tipica di impresa capitalista, in cui in realtà comanda il capitalista, attorniato da un gran numero di funzionari e di tecnici che conoscono lo stato della produzione e organizzano la sua distribuzione. Naturalmente, il grosso degli utili va al capitalista, che è proprietario dell’impresa capitalista, in altre parole egli si appropria del plusvalore. Nell’”autogestione” jugoslava sono i funzionari, i direttori delle imprese e il personale di ingegneri e tecnici ad appropriarsi di una gran parte del plusvalore, mentre “la parte del leone” viene prelevato dalla Federazione o dalla repubblica per il finanziamento dei cospicui stipendi di tutti quei funzionari dell’apparato centrale, sia della Federazione che della repubblica. Occorrono fondi per mantenere in piedi la dittatura titoista – esercito, il Ministero degli Interni e gli organi di Sicurezza dello Stato, il Ministro degli Esteri, ecc., che dipendono dalla Federazione e che vanno gonfiandosi ed ampliandosi senza sosta. In questo Stato federativo si è sviluppata una burocrazia di funzionari e di dirigenti improduttivi, che ricevono stipendi molto alti, ricavati dal sudore e dal sangue degli operai e dei contadini. Oltre a questo, una rilevante parte degli introiti è accaparrata dai capitalisti stranieri che hanno fatto investimenti nelle imprese e che hanno i loro rappresentanti nel “consiglio di amministrazione” o nel “consiglio degli operai”, e partecipano così alla direzione dell’impresa. In questo sistema, denominato socialismo autogestionario”, gli operai si trovano dunque costantemente in condizioni di totale sfruttamento.

L’ingranaggio dei “consigli operai” e dei “comitati di autogestione” con le loro commissioni, è stato escogitato dai revisionisti di Belgrado solo per creare agli operai l’illusione che essendo “eletti”, partecipando a questi organismi e prendendo parte alle discussioni, sarebbero loro a decidere degli affari dell’impresa, della “loro” proprietà. Secondo Kardelj, “…gli operai nell’organizzazione fondamentale del lavoro associato. gestiscono il lavoro e l’attività dell’organizzazione del lavoro associato e i mezzi della riproduzione sociale… decidono di tutte le forme di associazione e di collegamento del proprio lavoro e dei mezzi nonché di tutti gli introiti che si assicurano con il loro lavoro associato,… si spartiscono fra loro conformemente ai principi e ai criteri stabiliti su basi autogestionarie, gli introiti per il consumo personale, comune e generale…”. (p. 160), ecc., ecc.

Tutte queste sono fandonie, poiché nelle condizioni della Jugoslavia dove fiorisce la democrazia borghese, non c’è vera libertà di pensiero e di azione per i lavoratori. La libertà d’azione nelle imprese “autogestionarie” è falsa. In Jugoslavia l’operaio non dirige e non gode di quei diritti così pomposamente proclamati dall’”ideologo” Kardelj. Lo stesso Tito, nel discorso pronunciato di recente nell’attivo dirigente di Slovenia, volendo dimostrare che è un uomo realista e contrario alle ingiustizie del suo regime, ha detto che l’”autogestione” non impedisce l’aumento degli introiti di coloro che lavorano male a spese di coloro che lavorano bene, mentre i dirigenti delle fabbriche, che sono responsabili delle perdite, possono sfuggire alla loro responsabilità ricoprendo cariche importanti in altre fabbriche, senza temere rimproveri da nessuno per le colpe commesse.

Benché in “teoria” Kardelj abbia soppresso la burocrazia e la tecnocrazia, abbia soppresso il ruolo di una classe tecnocratica dominante, in realtà, nella pratica, questa classe è stata creata rapidamente ed ha trovato campo libero di azione in questo presunto sistema democratico, in cui il ruolo dell’uomo lavoratore sarebbe “determinante”. In realtà determinante è il ruolo di quello strato di funzionari e di nuovi borghesi che domina nell’impresa “autogestionaria”. Sono questi che preparano il piano, che fissano l’ammontare degli investimenti, che assegnano gli introiti di ognuno, dell’operaio e di sé stessi; naturalmente, la tendenza a questo proposito è di tirare acqua al proprio mulino. Sono stati promulgati delle leggi e dei regolamenti, ma in modo che i proventi siano maggiori per la direzione e minori per gli operai.

In Jugoslavia, questo strato ristretto di uomini, ingrassati con il sudore e la fatica degli operai, che prende decisioni per il proprio tornaconto, si è trasformato in classe capitalista. Così è stato creato il monopolio politico del potere decisionale e di spartizione degli introiti da parte dell’élite nelle imprese di “autogestione” socialista, mentre Kardelj continua a cantare sempre lo stesso ritornello, secondo cui questo sistema politico, inventato dai titoisti, contribuirebbe a creare le dovute condizioni per la realizzazione concreta dei diritti “autogestionari” e “democratici” dei lavoratori, che il sistema riconosce loro in linea di principio.

La formazione della nuova classe capitalista è stata incoraggiata proprio dal sistema di “autogestione”. Questo deplorevole fatto l’ha ammesso anche Tito in un’”aspra critica” che avrebbe mosso contro gli sfruttatori degli operai, contro tutti coloro che dirigono il sistema di “autogestione socialista” e ne traggono vantaggi. In numerosi discorsi, per quanto abbia tentato di nascondere i mali del suo sistema pseudosocialista, egli è stato costretto ad ammettere la grave crisi di questo sistema e la polarizzazione della società jugoslava in ricchi e poveri. “lo non considero arricchimento, ha detto, quello che l’uomo può guadagnare col suo lavoro, anche se con i suoi guadagni si sia costruito una villa. Ma quando si tratta di centinaia di milioni e perfino di miliardi, allora sì che ci troviamo di fronte ad un furto… Questi non sono proventi procurati con il sudore… Questa ricchezza viene creata attraverso speculazioni di ogni genere all’interno del paese e all’estero… Ora dobbiamo vedere la questione di coloro che costruiscono case una a Zagabria, un’altra a Belgrado e una terza sul mare o in qualche altra località. Qui non si tratta di una semplice dimora, ma di ville che possono benissimo essere date in affitto. Inoltre ci sono persone che dispongono non di una, ma anche di due o tre vetture per famiglia … ” (Intervista concessa da Tito alla redattrice del giornale “Vjestnik”, ottobre 1972.). In un’altra occasione, per mostrare che è contrario alla creazione di strati ricchi e poveri nella società, egli ha anche accennato che nelle sole banche jugoslave, alcuni benestanti hanno depositato circa 4,5 miliardi di dollari, senza contare qui le somme depositate nelle banche straniere e quelle che tengono nelle loro tasche.

Trattando del sistema escogitato dai revisionisti titoisti, Kardelj è costretto a menzionare di sfuggita la necessità di lottare “…contro le varie forme di deformazione e contro i tentativi di usurpazione dei diritti autogestionari dei lavoratori e dei cittadini” (p. 174). Anche la via d’uscita da questi “abusi” egli la cerca di nuovo all’interno del sistema “autogestionario”, allargando ” … il relativo meccanismo del controllo sociale democratico … ” (p. 178).

Qui non si può fare a meno di domandare: a quale classe fa allusione Kardelj, quando parla di “usurpazione dei diritti autogestionari dei lavoratori”? Egli, certamente, non lo dice, ma si tratta della classe borghese vecchia e nuova, che ha usurpato il potere della classe operaia, le sta sul dorso e la sfrutta fino al midollo.

Invano cerca Kardelj di presentare “i consigli operai”, “le organizzazioni fondamentali del lavoro associato”, ecc., ecc. come la più autentica espressione della “democrazia” e della “Libertà” dell’uomo in tutti i campi sociali. “I consigli operai” non sono altro che organi puramente formali, che difendono e realizzano non gli interessi degli operai, ma la volontà dei dirigenti delle imprese, i quali, essendo materialmente, politicamente e ideologicamente corrotti, si sono integrati nella “aristocrazia” e nella “burocrazia operaia” e sono divenuti agenzie la cui missione è di ingannare la classe operaia e di cullarla in vane speranze.

La realtà jugoslava parla chiaro dell’assenza di vera democrazia per le masse. E non poteva essere diversamente. Lenin rilevava che:

“La democrazia della produzione” è un termine che induce a interpretazioni errate. Può essere inteso come negazione della dittatura e della direzione unica. Può essere inteso come un aggiornamento della democrazia abituale o come uno scostamento da essa” (Lenin, Opere, vol. 32, pag. 80.).

Non vi può essere democrazia socialista per la classe operaia senza il suo Stato di dittatura del proletariato. Il marxismo-leninismo c’insegna che la negazione dello Stato di dittatura del proletariato è la negazione della democrazia stessa per le masse lavoratrici.

La negazione da parte dei revisionisti jugoslavi dello Stato di dittatura del proletariato e della proprietà sociale socialista sulla quale si fonda, li ha portati ad una gestione decentralizzata dell’economia e senza un piano unico statale. Lo sviluppo dell’economia nazionale sulla base di un unico piano statale e la sua direzione da parte dello Stato socialista, sulla base del principio del centralismo democratico, sono una delle leggi generali e uno dei principi fondamentali dell’edificazione del socialismo in ogni paese. Altrimenti avviene quel che è avvenuto in Jugoslavia dove si edifica il capitalismo.

Kardelj sostiene che gli operai nelle loro organizzazioni “autogestionarie” hanno il diritto di “…amministrare il lavoro e l’attività dell’organizzazione del lavoro associato…” (p. 160), cioè delle imprese; quindi, secondo lui, possono pianificare anche la produzione. Ma quale è la verità? L’operaio in queste organizzazioni non dirige e neppure prepara il cosiddetto piano alla base. A far questo è invece la nuova borghesia, la direzione dell’impresa, mentre agli operai viene data l’impressione che i cosiddetti “consigli operai” fanno la legge in quest’organizzazione “autogestionaria”. Ciò avviene anche nei paesi capitalisti, in cui il potere nelle imprese private si trova nelle mani del capitalista, che possiede la sua propria tecnocrazia, i suoi tecnocrati che dirigono; e in alcuni paesi vi sono anche rappresentanti degli operai, che svolgono una funzione priva di qualsiasi importanza tanto per dare loro l’illusione che partecipano agli affari dell’impresa. Ma tutto questo è una menzogna.

La cosiddetta pianificazione che viene effettuata nelle imprese “autogestionarie” jugoslave non solo non può essere chiamata socialista, ma, in quanto segue l’esempio di tutte le imprese capitaliste, porta alle stesse conseguenze che si osservano in tutte le economie capitaliste, come l’anarchia nella produzione, lo spontaneismo ed una serie di altre contraddizioni, che si manifestano nel modo più palese e più grave nell’economia e sul mercato jugoslavo.

“..Il libero scambio del lavoro attraverso la produzione delle merci e del libero mercato autogestionario (sottolineato da noi) nell’attuale livello dello sviluppo sociale ed economico, scrive Kardelj, è una condizione dell’autogestione… Questo mercato… é libero nel senso che le organizzazioni autogestionarie del lavoro associato si integrano, liberamente e con il minimo di interventi amministrativi, nei rapporti di libero scambio del lavoro. La soppressione di questa libertà conduce al ripristino del monopolio di proprietà statale dell’apparato dello Stato” (p. 95).

Non c’è negazione più palese degli insegnamenti di Lenin, il quale scriveva:

“Noi dobbiamo sostenere, ed abbiamo interesse di sviluppare un commercio “regolare”, che non si sottragga al controllo dello Stato”, “poiché libertà di vendita, libertà di commercio, significa sviluppo del capitalismo” (V. I. Lenin. Opere, vol. 32, pp. 426, 413.) (sottolineato da noi).

Dall’economia politica del socialismo si sa che il commercio del socialismo, come tutti gli altri processi della riproduzione sociale, è un processo che pianificato e diretto in modo centralizzato che si basa sulla proprietà sociale socialista ed è parte integrante dei rapporti di produzione socialisti. Però questi insegnamenti sono estranei al revisionista Kardelj per il fatto che egli nega il ruolo economico dello Stato socialista e della proprietà socialista. Il mercato interno jugoslavo è un mercato tipicamente capitalista decentralizzato, in cui i mezzi di produzione sono venduti e comprati liberamente da chiunque, il che è in contrasto con le leggi del socialismo. E’ questo il motivo per cui la TANJUG è costretta ad ammettere che in tutto il mercato jugoslavo dominano gli imprenditori, gli intermediari e gli speculatori. Sul mercato regnano il caos, lo spontaneismo, le oscillazioni catastrofiche dei prezzi ecc. Stando ai dati dell’istituto Federativo Jugoslavo di Statistica, i prezzi dei 45 principali prodotti e servizi sociali in Jugoslavia sono aumentati del 149,7% nel periodo che va dal 1972 al 1977.

Per quanto riguarda la vendita delle merci all’interno del paese, il potere d’acquisto in Jugoslavia è molto debole, a causa dei bassi salari dei lavoratori ed anche per il fatto che, nel bilancio definitivo delle aziende, non rimane molto da ripartire tra gli operai. L’impresa desidera vendere dove può e in modo indipendente i suoi prodotti, poiché i principali dirigenti, vale a dire i boss, la nuova borghesia, vogliono procurarsi dei profitti. Ma come procurarsi questi profitti se gli acquirenti sono poveri? Per questo motivo sono state escogitate nuove forme, soprattutto quella della vendita a credito. La vendita a credito degli articoli fabbricati da queste imprese “autogestionarie” è un’altra catena che viene messa al collo dell’operaio jugoslavo, nel medesimo modo in cui è messa all’operaio dei paesi capitalisti da questo stesso sistema capitalista, che in Jugoslavia porta il nome di “autogestione socialista”.

Questi stessi tratti caratterizzano anche il commercio estero jugoslavo in cui non esiste il monopolio di Stato. Ogni azienda può, a seconda dei desideri dei suoi padroni, stipulare contratti e accordi con qualsiasi ditta straniera, società multinazionale o Stato straniero per acquistare o vendere materie prime, macchinari, prodotti finiti, tecnologia e così via. E questa pratica antimarxista ha fatto dello Stato jugoslavo un vassallo del capitale mondiale, che s’immerge sempre più nella crisi economica e finanziaria che ha investito tutto il mondo capitalista-revisionista, crisi che si manifesta anche in altri settori.

In quanto revisionista matricolato, E. Kardelj nega il ruolo dello Stato socialista anche in altri campi come i rapporti finanziari e le altre attività di diversa natura. Egli scrive che “i rapporti, nei campi in cui si creano le comunità autogestionarie di interessi, si sviluppano in linea di massima senza l’intervento dello Stato, cioè…. senza il concorso del bilancio e di altri provvedimenti amministrativi e fiscali … ” (p. 167).

In Jugoslavia, così come in altri paesi capitalisti, si è ampiamente diffuso il sistema di concessione di crediti da parte delle banche invece del finanziamento tramite il bilancio degli investimenti necessari allo sviluppo delle forze produttive e delle altre attività, le banche sono diventate i centri del capitale finanziario e sono proprio esse che svolgono un ruolo di primaria importanza nell’economia jugoslava nell’interesse della nuova borghesia revisionista.

Così, un simile sistema anarcosindacalista è stato instaurato in Jugoslavia ed è stato battezzato col nome di “autogestione socialista”. Che cosa ha portato questa “autogestione socialista” alla Jugoslavia? Tutti i guai. In primo luogo l’anarchia nella produzione. In quel paese nulla è stabile, ogni azienda lancia i suoi prodotti sul mercato in cui si sviluppa la concorrenza capitalista, in quanto mancano del tutto le azioni coordinate, per la semplice ragione che la produzione non è diretta dall’economia socialista. La stessa azienda si sforza, in concorrenza con le altre aziende, di garantirsi le materie prime, i mercati, gli sbocchi di vendita, e tutto il resto. Parecchie aziende chiudono i battenti a causa della mancanza di materie prime, degli ingenti disavanzi dovuti a questo caotico sviluppo capitalista, dell’aumento dei fondi di magazzino provocato dalla mancanza di potere d’acquisto e dalla saturazione del mercato con articoli fuori di moda. Anche la situazione dei servizi artigianali si presenta molto grave in Jugoslavia. Tito, riferendosi a questo problema davanti all’attivo dirigente di Slovenia, non ha potuto nascondere il fatto che “oggi, la gente deve sudare per trovare per esempio un falegname o un altro artigiano per una riparazione qualunque, e quando lo trova, questi lo strozza al punto di far rizzare i capelli sul capo”.

Indipendentemente dal fatto che, come lo abbiamo rilevato, i prodotti che escono da alcuni complessi industriali moderni sono di buona qualità, la Jugoslavia si trova in una situazione difficile a causa della mancanza di sbocchi per questi prodotti. Ciò spiega anche il disavanzo della bilancia commerciale jugoslava. Nei soli primi 5 mesi dell’anno corrente, il deficit è stato di 2 miliardi di dollari. All’11° Congresso della Lega dei “Comunisti” di Jugoslavia, Tito ha dichiarato che “il deficit sul mercato internazionale è diventato quasi intollerabile”. Quasi 3 mesi dopo questo congresso, egli ha di nuovo dichiarato in Slovenia: “Noi abbiamo in particolar modo delle grandi difficoltà nei nostri scambi commerciali con il Mercato comune europeo. Qui il disavanzo a nostro sfavore è notevole e va costantemente crescendo. Perciò dobbiamo parlare molto seriamente con loro a questo proposito. Parecchi di loro ci promettono che queste cose si aggiusteranno, che aumenteranno le loro importazioni dalla Jugoslavia, ma da tutti questi rapporti abbiamo tratto fino ad oggi ben poco cosa. Ognuno addossa la colpa all’altro”. E il disavanzo negli scambi commerciali con l’estero, che Tito evoca in questo discorso, ha superato nel 1977 i quattro miliardi di dollari. Ciò rappresenta una vera catastrofe per la Jugoslavia.

Tutto il paese si trova in una crisi continua e le vaste masse lavoratrici vivono nella povertà. Molti operai non hanno lavoro, vengono gettati sul lastrico oppure emigrano all’estero. Questa emigrazione economica, questo fenomeno capitalista, Tito l’ha non solamente riconosciuto, ma ha anche raccomandato di incoraggiarlo. In un paese socialista non può esistere la disoccupazione, e l’esempio più lampante in questa direzione è l’Albania. Intanto nei paesi capitalisti, di cui fa parte naturalmente anche la Jugoslavia, la disoccupazione esiste e si crea in tutti i settori. Il fatto che in Jugoslavia vi siano più di 1 milione di disoccupati e oltre 1,3 milioni di emigrati economici, che vendono la loro mano d’opera nella Germania federale, in Belgio, Francia, ecc., che vi crescano rapidamente le ricchezze delle persone private che occupano cariche importanti sia nel potere che nelle aziende e nelle istituzioni, che i prezzi degli oggetti di largo consumo aumentino di giorno in giorno, che le imprese e le loro filiali fallite si contino a migliaia, – tutto ciò prova che l’”autogestione jugoslava” è un grande bluff. E Kardelj, impudentemente, giunge al punto di scrivere che l’”autogestione socialista nelle nostre condizioni è la forma più diretta e l’espressione della lotta per la libertà dei lavoratori, per la libertà del loro lavoro e della loro creazione, per fare sì che la loro influenza economica e politica sia determinante nella società” (p. 158).

Accentuando ulteriormente con una fraseologia trita e ritrita la sua demagogia di tipo borghese, Kardelj spinge la menzogna fino al punto di affermare: “Mediante la garanzia costituzionale e legale dei diritti degli operai sulla base del loro lavoro socializzato passato, la nostra società estende maggiormente le dimensioni dell’autentica libertà degli operai e dei lavoratori nei rapporti materiali della società” (p. 162). Che cosa intende dire quest’apologista della borghesia con “estensione delle dimensioni dell’autentica libertà dei lavoratori”? Forse la “libertà” di essere senza lavoro, la “libertà” di abbandonare la propria patria per andare a vendere la forza delle proprie braccia e del proprio intelletto ai capitalisti del mondo occidentale, oppure la “libertà” di pagare le imposte, di essere oggetto di una feroce discriminazione e di un selvaggio sfruttamento da parte della vecchia e nuova borghesia jugoslava, nonché della borghesia straniera?

3 – L’”autogestione” e le concezioni anarchiche sullo Stato.

La questione nazionale in Jugoslavia

In Jugoslavia non esistono organi del potere statale in quanto veri rappresentanti del popolo. Là esiste solo il sistema burocratico denominato “sistema di delega”, che viene presentato come detentore del sistema del potere, ragion per cui non si procede all’elezione dei deputati agli organi del potere statale. I titoisti si sforzano di giustificare questo fatto con l’argomento che gli organi rappresentativi sarebbero espressione del parlamentarismo borghese e dello Stato socialista sovietico, il quale, secondo loro, è stato trasformato da Stalin in una istituzione burocratica e tecnocratica. In Jugoslavia è stata ripudiata l’esperienza dei soviet dei deputati operai e contadini, creati da Lenin sulla base della grande esperienza della Comune di Parigi, poiché i revisionisti jugoslavi considerano queste come “forme d’organizzazione statale che generano il potere personale”.

Sviluppando l’idea revisionista del “socialismo specifico” verso gli anni ‘50, i titoisti hanno pubblicamente dichiarato di aver definitivamente rinunciato al sistema statale socialista, e di averlo sostituito con un presunto nuovo sistema, il “socialismo autogestionario”, in cui il socialismo e lo Stato sono completamente estranei l’uno all’atro. Questa “scoperta” revisionista non è altro che una copia delle teorie anarchiche di Proudhon e di Bakhunin sull’”autogestione operaia” e le “fabbriche degli operai”, teorie da tempo smascherate, in quanto falsificazione grossolana delle vere idee di Marx e di Lenin sullo Stato di dittatura del proletariato.

K. Marx ha scritto:

“Fra la società capitalista e comunista intercorre il periodo della trasformazione rivoluzionaria della prima nella seconda. A questo periodo corrisponde un periodo di transizione politica in cui lo Stato non può essere altra cosa che dittatura rivoluzionaria del proletariato..” (K. Marx e F. Engels, Opere scelte, Vol. II, p. 24, Tirana 1975.)

Il sistema politico di “autogestione socialista” jugoslavo non solo non ha nulla in comune con la dittatura del proletariato, ma è anche contrario ad essa. Questo sistema è stato edificato sull’esempio dell’amministrazione degli Stati Uniti d’America. Lo stesso Kardelj, parlando del sistema di “autogestione” jugoslava, ha scritto: ” … possiamo affermare che questo sistema si avvicina un po’ più all’organizzazione del potere esecutivo negli Stati Uniti d’America che a quella dell’Europa Occidentale … ” (p. 235).

Appare quindi chiaro che qui non si cerca di negare il fatto che l’organizzazione del governo jugoslavo è una copia dell’organizzazione dei governi capitalisti, ma di sapere quale governo capitalista è stato imitato di più, il governo americano oppure uno dei governi dell’Europa Occidentale? E tale questione Kardelj la risolve rispondendo: è stato preso come modello d’organizzazione quello del potere esecutivo degli Stati Uniti d’America.

Le concezioni dei revisionisti jugoslavi sullo Stato sono totalmente anarchiche. Si sa che l’anarchismo esige l’immediata soppressione di qualsiasi specie di Stato, quindi anche della dittatura del proletariato. Anche i revisionisti jugoslavi hanno soppresso la dittatura del proletariato e per giustificare il loro tradimento, essi evocano due fasi del socialismo: il “socialismo di Stato” e l’”autentico socialismo umanitario”. La prima fase, secondo loro, comprende i primi anni successivi al trionfo della rivoluzione, allorché la dittatura del proletariato esiste e si esprime nello Stato “di socialismo di Stato- burocratico”, cosi come avviene nel capitalismo. La seconda fase è quella del superamento dello Stato “di socialismo di Stato-burocratico” e della sua sostituzione con la “democrazia diretta”. Con queste concezioni i titoisti non solo negano la necessità della dittatura del proletariato nel socialismo, ma contrappongono l’una all’altra anche le nozioni di Stato socialista, di dittatura del proletariato e di democrazia socialista.

Essi non tengono conto degli insegnamenti dei classici del marxismo-leninismo secondo cui, durante tutto il periodo storico di passaggio dal capitalismo al comunismo, lo Stato socialista si rafforza costantemente, ragion per cui E. Kardelj scrive che la società in Jugoslavia si basa sempre meno sul ruolo dell’apparato statale. Secondo lui, attualmente in Jugoslavia lo Stato andrebbe verso la sua estinzione.

Ma con che cosa sostituisce Kardelj il ruolo dell’apparato statale? Con l’”iniziativa degli operai”! E si esprime in questi termini: “… l’ulteriore funzionamento della nostra società si baserà sempre meno sull’apparato statale e sempre più sulla forza e l’iniziativa degli operai …”

Che ragionamento assurdo! Per poter parlare di iniziativa degli operai occorre innanzi tutto che essi siano liberi, organizzati e ispirati da direttive chiare, e che siano presi provvedimenti efficaci per l’attuazione di tali iniziative. Chi si occupa in Jugoslavia dell’organizzazione degli operai e cerca di ispirarli con direttive chiare? “La comunità autogestionaria”, risponde E. Kardelj valendosi di una formula del tutto astratta. In questa presunta comunità, egli conferisce un ruolo primordiale all’individuo “nel lavoro associato autogestionario dei suoi interessi. Che cosa significhi questa “comunità autogestionaria” degli interessi dell’individuo, che è stata posta al centro della società jugoslava, non è spiegato in modo chiaro, ma quello che emerge da queste idee è l’individualismo borghese, che esalta i diritti assoluti dell’individuo nella società e la sua totale indipendenza nei confronti di questa, come pure la preminenza degli interessi personali sugli interessi della società.

Secondo questo “teorico”, che si permette di fare tali apprezzamenti, la consolidazione dello Stato e del suo apparato è una caratteristica delle forme “dei rapporti socialisti di produzione basato sulla proprietà statale” (p. 8), mentre in Jugoslavia, dice lui, al posto dello Stato si svilupperà sempre più il processo di formazione del ruolo “autogestionario” dell’uomo lavoratore. Quindi, in uno Stato autenticamente socialista, in cui vengono applicate la scienza marxista-leninista e la pratica rivoluzionaria leninista, secondo questo “filosofo”, l’uomo non può essere libero e padrone del proprio destino, ma si trasforma in automa, mentre nell’”autogestione” jugoslava l’uomo lavoratore acquista, a suo dire, une grande importanza ed è precisamente in questa “autogestione”, nel “meccanismo democratico di delega della società jugoslava” che egli diventa consapevole del grande ruolo che gli spetta! Quali sono le classi che rappresentano questi organi statali, quale ideologia hanno come guida, quali sono i princìpi sui quali si basa la loro attività e quali sono gli organi a cui rendono conto del loro operato? Ovviamente, queste questioni rimangono senza risposte chiare, poiché qualsiasi risposta precisa al riguardo getterebbe luce sul sistema politico capitalista jugoslavo.

Kardelj, senza far alcuna distinzione sul tipo di Stato, di partito o di sistema a cui allude, e attaccando lo Stato in generale come inumano, si attiene fedelmente alle posizioni anarchiche quando scrive: “Né lo Stato, né il sistema, né il partito politico possono portare felicità all’uomo. L’uomo si può procurare la felicità da sé.(p. 8). Qui si manifestano molto chiaramente le tendenze allo spontaneismo della teoria antimarxista dell’”autogestione socialista”, secondo cui la classe operaia, per poter realizzare le sue aspirazioni, non ha bisogno di organizzarsi in partito e in Stato, poiché, col tempo, anche andando a tentoni nel buio, finirà per trovare un giorno la felicità che sta cercando.

Per prevenire la questione: se lo Stato non è più necessario, perché mai non viene liquidato in Jugoslavia? Kardelj scrive: “lo Stato … deve presentarsi come arbitro solo nei casi in cui le convenzioni di autogestione non possono essere realizzate, mentre, sotto l’aspetto degli interessi sociali, è indispensabile prendere delle decisioni” (p. 23). E per dimostrare che la necessità dell’arbitraggio dello Stato nella risoluzione dei disaccordi si fa sentire molto di rado, egli afferma che “Il libero scambio dei lavoro tende sostanzialmente a ridurre gli antagonismi fra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Il lavoro intellettuale. nei rapporti di questa natura, non è superiore al lavoro manuale, ma solamente una delle componenti del lavoro libero e associato e del libero scambio delle diverse forme dei risultati del lavoro” (p. 24). leggendo queste frasi, ognuno può chiedersi: Forseché l’autore allude all’ordinamento sociale jugoslavo? Quando mai si sarebbero attenuati in Jugoslavia gli antagonismi fra lavoro intellettuale e lavoro manuale?!

L’evoluzione reale delle cose in Jugoslavia dimostra il contrario. Fra lavoro intellettuale e lavoro manuale vi sono sostanziali differenze che non possono essere ridotte a parole. E’ sorprendente parlare dell’attenuazione degli antagonismi fra lavoro intellettuale e lavoro manuale nello Stato jugoslavo, quando si sa che in quel paese la disparità fra le paghe degli operai e quelle degli intellettuali, senza menzionare le altre disparità, è dell’ordine di 1 a 20, se non di più.

Kardelj considera l’”autogestione nel lavoro associato” come l’” … autentica base materiale anche per l’amministrazione della società, cioè delle comunità sociopolitiche che esercitano il potere statale, dal comune alla Federazione, come pure dell’attuazione dei diritti democratici dell’uomo lavoratore e dei cittadini nell’amministrazione statale, cioè nella società. L’autogestione è la base materiale anche dello sviluppo dell’operaio in quanto creatore nell’impiego dei mezzi materiali…” (p. 24), ed altre frasi simili a non finire.

Cercando di presentare la cosiddetta autogestione come una premessa materiale della felicità umana, che sarebbe stata “scoperta” in Jugoslavia dai grandi cervelli, Kardelj impiega frasi lambiccate e un linguaggio ecclesiastico che si dilunga molto ma non dice niente. Egli delinea idee contraddittorie sul “socialismo scientifico” e impiega espressioni prolisse, per dare alle sue affermazioni un senso profondo e filosofico.

Ma come viene attuato in pratica il sistema Politico jugoslavo? Rispondendo a questa domanda, Kardelj è costretto ad ammettere: “In questo senso, nel sistema stesso vi sono molti punti deboli. Tutta una serie di carenze nel funzionamento delle organizzazioni e delle istituzioni del nostro sistema politico creano a giusta ragione la convinzione che rilevanti fonti di burocratismo e di tecnocratismo sono ancora in azione, che la nostra amministrazione è complicata ed è proprio per questa ragione che il burocratismo vi si è insediato, che alcuni organi e alcune organizzazioni si sono chiusi in sé stessi, che vi sono parecchi vuoti e parallelismi al lavoro, che le forme di comunicazione democratica attraverso gli organi autogestionari e statali e tutta la struttura sociale non si sono sviluppate al dovuto livello, che si organizzano molte riunioni vuote di senso e non produttive, che le nostre riunioni sono spesso mal preparate e le nostre decisioni mal formulate dal punto di vista professionale, che il cittadino, nella lotta per i suoi diritti, supera con difficoltà gli ostacoli amministrativi, ecc.” (p. 193). Se il sistema di “autogestione” è soffocato dal burocratismo, se gli organi esecutivi e amministrativi si chiudono nel proprio guscio, prendono delle decisioni inutili e hanno tagliato tutti i ponti con i cittadini che vogliono presentare le loro numerose lagnanze, allora a chi serve questo sistema se non alla stessa cricca di Tito? In che modo i cittadini jugoslavi si autogovernano dal momento che non riescono a superare gli “ostacoli amministrativi”? Malgrado la grande premura del serpente di nascondere la coda, malgrado le riserve dell’ideologo titoista e la sua tendenza a smussare gli angoli per dissimulare i mali del suo sistema, anche quel poco che è costretto ad ammettere basta per farsi una idea della realtà.

Kardelj scrive: “La struttura stessa delle assemblee dei delegati e il modo d’adozione delle decisioni sono organizzati in maniera tale da garantire, in via di principio, un ruolo guida al lavoro associato in tutto il sistema delle decisioni statali” (pp. 24-25). Con queste parole egli cerca di concentrare l’attenzione sul fatto che le “assemblee dei delegati”, che in realtà somigliano molto alle assemblee create dai sindacati capitalisti, in cui gli operai iscritti ai sindacati si perdono in chiacchiere, possono, a suo dire, assolvere le funzioni dello Stato. Perciò, secondo lui, lo Stato di dittatura dei proletariato è superfluo.

Qui, naturalmente, non si tratta di sostituire la denominazione di dittatura del proletariato, che incute terrore alla borghesia e al revisionismo, con la denominazione “assemblea dei delegati”. No, qui si tratta di cambiare il carattere di classe dello Stato socialista, affinché il potere non sia nelle mani della classe operaia ma in quelle della nuova borghesia. Non è difficile capire che queste prese di posizione mirano a giustificare il ritorno al capitalismo e a legittimare nel limite del possibile, il tradimento dei revisionisti.

Per far credere che il loro tristemente formoso sistema di “autogestione socialista” è un sistema giusto e accettabile, i titoisti contrappongono tale sistema sia alla dittatura borghese che alla dittatura del proletariato. Per i titoisti, tutti gli altri sistemi politici, senza fare nessuna distinzione fra il capitalismo e il socialismo, sono “dogmatici”. Dopo aver dato ai loro sogni il nome di “sistema socialista di autogestione”, al fine di provare la superiorità del loro sistema, essi lo confrontano con l’ordinamento sociale capitalista.

Naturalmente, i revisionisti jugoslavi non possono non “biasimare” il sistema politico parlamentare della società borghese, che Kardelj definisce sistema “pluripartitico”, poiché, altrimenti, non farebbero che smascherarsi come sostenitori del parlamentarismo borghese, che Marx e Lenin hanno duramente criticato ai loro tempi. Quindi, secondo loro, sarebbe erroneo affermare che il sistema politico dello Stato borghese ha un carattere universale ed eterno. Si sa che Kardelj non è stato il primo a “criticare” la tristemente famosa tesi sull’universalità e perennità del capitalismo, predicata dagli ideologi borghesi. I classici del marxismo-leninismo, rigettando le concezioni della socialdemocrazia, hanno dimostrato scientificamente che il sistema capitalista non ha affatto carattere universale ed eterno, che è destinato a morire, che lo Stato capitalista, in quanto prodotto e baluardo di questo sistema antipopolare, deve essere distrutto dalle sue fondamenta e che al suo posto bisogna costruire il vero sistema socialista, e non un sistema imbastardito, come il sistema politico jugoslavo di “autogestione”, che parte dal capitalismo per far di nuovo ritorno al capitalismo.

Kardelj “critica” il sistema parlamentare borghese, ma con riguardo, perché non vuol male a tale sistema; perciò, subito dopo averlo criticato, porta alle stelle e divinizza il suo contributo allo sviluppo democratico dell’umanità. Al fine di gonfiare l’importanza di tale carattere reazionario dell’attuale parlamento borghese, soprattutto di mettere in evidenza “i legami organici del parlamento con i diritti democratici dell’uomo”, per la prima volta egli cita (o piuttosto mutila) Marx: “il regime parlamentare vive con la discussione, allora come si fa ad impedirla? Ogni interesse e ogni istituzione sociale si trasformano qui in idee generali e, in quanto tali, sono anche vagliate, allora come può un interesse o una istituzione mettersi al di sopra di queste idee e imporsi come un dogma religioso?… Se nel regime parlamentare ogni cosa è decisa dalla maggioranza, allora perché le stragrandi maggioranze fuori del parlamento non dovrebbero prendere delle decisioni?”

Nel contesto del libro questa citazione di Marx è fuori di proposito, ragion per cui difficilmente può servire a dimostrare quel che desidera Kardelj. L’idea di Marx, mutilata e separata in modo inammissibile dal suo contesto, nella forma diabolicamente citata da questo revisionista, mette in dubbio l’innegabile fatto che Marx è stato assolutamente contrario al venduto e putrido parlamentarismo della borghesia.

Questo tentativo di Kardelj non può avere successo. poiché tutti conoscono l’atteggiamento di Marx a questo riguardo. Infatti, criticando il parlamento borghese e la teoria borghese sulla separazione dei poteri, Marx non ha mai affermato la necessità di abolire le istituzioni rappresentative né di rinunciare al principio delle elezioni, come è avvenuto in Jugoslavia, al contrario egli ha scritto che nello Stato proletario bisogna creare e mettere in movimento organi rappresentativi che non siano “luoghi di chiacchiere”, ma vere istituzioni di lavoro strutturati in modo da funzionare come una

“corporazione di lavoro, legislativa ed esecutiva allo stesso tempo” (K. Marx e F. Engels. Opere scelte, vol. 1, p. 544, Tirana 1975.)

Il parlamentarismo borghese ha preso una “grande forza”, poiché, secondo l’autore del libro, la pratica socialista, a eccezione della Jugoslavia, non sarebbe stata capace di sviluppare più rapidamente e più ampiamente forme nuove di vita democratica che corrispondano ai rapporti socialisti di produzione. La nuova forma di vita democratica, secondo Kardelj, è stata realizzata dall’”autogestione socialista”, che ha varcato il Rubicone del potere classista dei proprietari e dei dirigenti tecnocrati e monopolisti del capitale. C’è veramente da stupirsi quando egli considera come “strutture artificiali” del parlamento borghese, come tentativi di unire “alcune cose che non possono essere unite” tutti gli sforzi compiuti dalle forze democratiche per trovare forme appropriate di democrazia, mentre giudica originali e socialiste le strutture dell’”autogestione socialista-jugoslava, queste combinazioni sofisticate delle forme borghesi-revisioniste di amministrazione! Se c’è una struttura di governo veramente fasulla, questa è proprio l’”autogestione” architettata secondo la teoria antimarxista e antidemocratica dei titoisti. L’”autogestione” jugoslava, indipendentemente dalle numerose dichiarazioni ingannevoli fatte al riguardo, è una copia del parlamentarismo borghese e dei rapporti capitalisti di produzione, una caotica appendice del sistema capitalista mondiale, della struttura e sovrastruttura di tale sistema.

“La nostra democrazia socialista, scrive Kardelj, non potrebbe essere un sistema completo di rapporti democratici senza la giusta soluzione dei rapporti fra le nazioni e le nazionalità della Jugoslavia” (p. 71). Benché questa era una buona occasione offerta all’ideologo revisionista di spiegare come il sistema politico di “autogestione socialista” abbia risolto il problema delle nazioni e delle nazionalità in Jugoslavia, egli ne fa appena un cenno e tratta superficialmente questo problema importante, serio e delicato per la Federazione, tanto che è difficile ricordare, dopo aver letto questo libro di 323 pagine , qualche parola concernente anche il problema delle nazioni e delle nazionalità.

Come si presenta la questione delle nazioni e delle nazionalità in Jugoslavia? La Federazione jugoslava ha ereditato profondi conflitti in questo campo. Con la loro politica, i regnanti megalomani serbi e i circoli reazionari sciovinisti di Jugoslavia hanno sempre stimolato conflitti e inimicizie fra le nazioni e le nazionalità.

Dopo la Secondo Guerra mondiale, la Repubblica Federativa di Jugoslavia lanciò la parola d’ordine “Unità-Fraternità”, ma questo slogan non bastò a risolvere le divergenze ereditate, per cui i vecchi conflitti e le crudeli bramosie di dominio continuarono a sussistere

Per quel che riguarda le tendenze centrifughe delle repubbliche e delle regioni nei confronti della Federazione, la cricca rinnegata di Tito non ha seguito una politica nazionale marxista-leninista. Al contrario, i rapporti fra le nazionalità sono rimasti quelli che erano all’epoca dei kralj e il genocidio a danno di alcune nazionalità è continuato a essere praticato. Questa politica è servita a stimolare l’odio e i dissidi fra le nazioni e le nazionalità di Jugoslavia. L ‘”unione” e la “fraternità” dei popoli, a proposito di cui si parla molto in Jugoslavia, non sono state mai poste sulle giuste fondamenta dell’eguaglianza economica, politica, sociale e culturale delle nazioni e delle nazionalità.

Senza realizzare l’eguaglianza in questi campi, non è possibile risolvere equamente la questione nazionale in Jugoslavia. Da quasi tre decenni il socialismo “autogestionario”, oltre alla demagogia sulla “comunità autogestionaria delle nazioni e delle nazionalità di un tipo nuovo”, non ha potuto fare niente per la realizzazione dei diritti sovrani delle diverse nazioni e nazionalità nelle repubbliche e nelle regioni della Jugoslavia, Così ad esempio la regione del Kossovo, la cui popolazione albanese è di circa tre volte più numerosa di quella della repubblica del Montenegro soffre di un’arretratezza economica, politica sociale e culturale molto accentuata rispetto alle altre regioni della Jugoslavia. Anche le grandi repubbliche presentano delle differenze inammissibili in tutti i campi, in paragone alle altre repubbliche. Questa situazione costituisce il punto più debole che scuote dalle sue Fondamenta la Federazione dei revisionisti jugoslavi.

Non c’è speranza alcuna che in Jugoslavia possano essere eliminate le vecchie e nuove divergenze fra le nazioni.

Analizzando con oggettività scientifica questa situazione assai difficile e torbida, si giunge alla conclusione irrefutabile che la questione nazionale in Jugoslavia non potrà essere risolta se non sarà attuato il marxismo-leninismo, quindi, se non sarà rovesciato il cosiddetto ordinamento capitalista autogestionario.

I rinnegati titoisti avvertono questo pericolo, perciò, quando sono costretti ad evocare le questioni concernenti le nazioni e le nazionalità, cercano di saltare il fosso ricorrendo a qualche dichiarazione enfatica, senza entrare nel fondo del problema, oppure raccogliendo false testimonianze dagli altri revisionisti, come hanno fatto dando una grande pubblicità alle dichiarazioni dei revisionisti cinesi concernenti la soluzione “marxista-leninista della questione nazionale in Jugoslavia”.

A parole i revisionisti possono presentare come loro pare e piace i rapporti fra le nazioni e le nazionalità in Jugoslavia, ma la triste verità su questi problemi li ossessionerà anche dopo la morte.

La questione nazionale in Jugoslavia sarà risolta dagli stessi popoli che fanno parte dell’attuale Federazione e non da coloro che, indipendentemente dalle loro dichiarazioni, seguono in realtà la politica reazionaria e sciovinista dei loro predecessori.

Continuando nei suoi apprezzamenti e parlando della politica dello Stato jugoslavo, il revisionista inveterato Kardelj afferma che esso “… non è più il monopolio degli uomini politici professionisti e dei raggruppamenti politici dietro le quinte, ma tende a divenire l’azione e la deliberazione dirette degli autogestionari e dei loro organi” (p. 25). Ecco, dirà Kardelj, ormai non potete più criticarci di aver tradito gli interessi della classe, poiché l’operaio jugoslavo è divenuto padrone della politica del suo paese e difende lui stesso i suoi interessi “autogestionari”, contrariamente a quel che avviene negli altri paesi in cui sono i politicanti professionisti ad esserne i padroni. Anche qui egli, con cattiva intenzione, non fa la dovuta distinzione fra paese capitalista e paese socialista, ma pone sullo stesso piano sia l’uno che l’altro, per far passare il nero per bianco.

Egli sa bene che per realizzare i disegni disonesti che si è fissato, deve senz’altro ridurre al minimo le manifestazioni che smascherano la realtà “autogestionaria”. Perciò egli minimizza il fatto che l’operaio jugoslavo non può realizzare i suoi diritti nel campo politico ed economico e spiega ciò “con una serie di argomenti oggettivi e soggettivi – fra qui figura, senza dubbio, anche il livello relativamente basso dell’istruzione e della cultura nonché dell’applicazione della scienza – l’operaio non è ancora in grado di dominare, orientare e controllare nella dovuta misura, in modo cosciente e creativo, tutti i problemi che gli impongono la sua posizione socioeconomica (p. 27). E’ evidente che tutto quello che egli scrive non è che un tentativo di difendere le posizioni antioperaie e antisocialiste. Attualmente l’operaio jugoslavo non capisce niente di questa teoria illusoria e non vede attuata in pratica nessuna di queste idee assurde, false, e inammissibili per lui.

Poiché il basso livello culturale e scientifico degli operai costituisce un ostacolo, come afferma Kardelj, il ruolo primordiale nella società di “autogestione” è svolto dagli uomini istruiti e qualificati, dall’élite che domina nella “comunità socialista”. In queste circostanze, nella maggioranza dei casi, le decisioni sono prese precisamente da quest’élite, dall’elemento della nuova borghesia colta, che detta legge in Jugoslavia. Di chi è la colpa se l’élite si distingue e il ruolo degli operai si smorza? Senza dubbio del sistema sociale stesso che ha generato la nuova classe capitalista e che le ha creato la possibilità di rafforzarsi economicamente a danno degli operai e di istruirsi, mantenendo però a un basso livello la condizione della classe operaia. Kardelj è costretto a riconoscere che in Jugoslavia le decisioni sono praticamente prese da una cerchia di gente relativamente ristretta. Ma quello che egli non dice è che precisamente in questo modo viene a crearsi il monopolio politico dell’élite nell’adozione delle decisioni e nella ripartizione degli utili nelle aziende dell’”autogestione socialista” questo monopolio politico, di cui i revisionisti jugoslavi fanno finta di non fidarsi e di combattere, salta agli occhi.

Nella società “autogestionaria”, secondo Kardelj, “… i vecchi rapporti fra l’operaio, lo Stato e le attività sociali bisogna assolutamente sostituirli con un nuovo rapporto fra i lavoratori della produzione diretta e i lavoratori delle attività sociali” (p. 23). Secondo lui, nella costruzione dei rapporti sociali, la giusta via non è quella di un regime socialista in cui è attuato il socialismo in cui c’è un entità fra i lavoratori della produzione diretta e i lavoratori delle attività sociali e politica e una struttura economica. in cui il ruolo principale è svolto dagli uomini lavoratori organizzati nel loro Stato socialista. la giusta via, secondo Kardelj, è la via dell’instaurazione di rapporti sociali “nuovi” senza la partecipazione dello Stato!

Queste concezioni sono un’espressione di puro anarchismo. Tutte queste frasi vengono lanciate per offuscare ogni cosa buona dell’autentico sistema socialista e per creare l’illusione che in Jugoslavia si procede verso l’unità fra i lavoratori e gli intellettuali attraverso “il libero scambio del lavoro”, che attenuerebbe, come per incanto, l’antagonismo fra loro.

Nella “teoria” di Kardelj non si fa né si può far cenno all’abbattimento con la violenza dello Stato capitalista, alla presa del potere da parte della classe operaia e all’instaurazione della dittatura del proletariato. E se egli cita Marx quando questi afferma che “la violenza è precisamente quello che noi siamo costretti ad impiegare in un dato momento – affinché sia instaurato definitivamente il potere del lavoro” Kardelj lo fa per dimostrare che Marx, a suo dire, era piuttosto propenso alla vittoria della rivoluzione proletaria con mezzi pacifici, che per lui la violenza non fu che una eccezione condizionata da alcune particolari circostanze sociali. Con simili ragionamenti da sofisti, Kardelj si sforza di creare l’impressione che attualmente la classe operaia può realizzare i suoi interessi storici non attraverso la rivoluzione, ma in alleanza con i vari partiti politici dei paesi capitalisti, la citazione diabolica che cerca di porre Marx contro Marx stesso. Per quel che riguarda la possibilità del passaggio pacifico al socialismo, Kardelj l’ha copiato dai suoi predecessori revisionisti contro i quali Lenin ha scritto:

“Il riferissi a Marx… sulla possibilità del passaggio pacifico al socialismo… è un argomento da sofista, oppure, per esprimerci in modo più semplice, da imbroglione che inganna gli altri a forza di citazioni e di riferimenti” (V. I. Lenin, Opere, vol. 28. p. 107.).

Kardelj ricorre a queste falsificazioni per tendere la mano agli “eurocomunisti”, con i quali è in pieno accordo. I partiti revisionisti italiano, francese e spagnolo hanno dichiarato che giungeranno al socialismo, a loro dire, attraverso la sviluppo della democrazia e delle libertà borghesi, con la forza dei voti ottenuti nelle elezioni parlamentari. La capacità della classe operaia, secondo gli “eurocomunisti”, dipenderà dalle posizioni chiave che esso riuscirà a conquistarsi nella struttura della società e del potere capitalista, come pure nella gestione della società. Secondo loro, ciò renderà possibile la trasformazione del carattere dei rapporti di produzione da capitalista in “autogestionario” o “socialista”. E’ precisamente in questa questione che la teoria titoista si ricollega alla teoria degli “eurocomunisti”. Gli “eurocomunisti” sono costretti ad accettare il pluralismo politico borghese europeo e l’unità fra i partiti borghesi, per ottenere, attraverso presunte riforme, la realizzazione dei numerosi diritti della classe operaia e, proseguendo su questa via, passare anche alla società “socialista”. Tali aspirazioni dei suoi amici Kardelj le considera “trasformazioni strutturali”, che avranno senz’altro implicazioni sullo sviluppo di questo processo e riusciranno a modificare la posizione e il ruolo del parlamento stesso.

Quindi la teoria di Kardelj sostiene che nella crisi del sistema capitalista, i partiti “comunisti dell’Europa Occidentale, pur conservando il sistema parlamentare, di cui, come afferma lui, non si possono negare le conquiste democratiche, debbono trovare il mezzo appropriato per realizzare l’alleanza della classe operaia con le più vaste forze “democratiche”. Con questa specie di alleanza, secondo la logica revisionista, sarà possibile creare una situazione “democratica” più favorevole per il sistema parlamentare e, in fine, tale sistema si potrà “trasformare”, non si sa come, in una forza decisiva del popolo! Questa è la via che il titoismo indica agli altri partiti revisionisti per la conquista del potere attraverso la via pacifica.

Ma negli Stati borghesi sono i capitalisti, i trust, i cartelli nazionali e le società multinazionali ad avere il potere in mano. Queste forze del capitale detengono le principali chiavi della direzione dell’economia e dello Stato, dettano legge e, attraverso un falso processo democratico, designano il governo che si trova ai loro ordini e che svolge la funzione di un gerente ufficiale delle loro ricchezze. La borghesia non conserva il potere per consegnarlo agli “eurocomunisti”, ma per difendere i propri interessi di classe, anche a prezzo di sangue se fosse necessario. Non costatare questa realtà che la vita conferma quotidianamente, vuol dire chiudere gli occhi e fantasticare in pieno giorno. Se gli “eurocomunisti” riusciranno ad avere uno o più seggi nel governo borghese, essi vi andranno in realtà come rappresentanti del capitalismo, alla stessa stregua degli altri partiti politici borghesi, e non come rappresentanti dei proletariato.

La pseudodemocrazia borghese, il parlamento, il quale, a loro dire, elegge il governo, non è altro che una marionetta nelle mani del potere del capitale, che opera “dietro le quinte” che, in forme varie, detta legge su ogni cosa da fuori. I vari partiti che sono rappresentati al parlamento, come pure i sindacati che pretendono di lottare in difesa degli operai, danno varie sfumature alle diverse forme di realizzazione dell’autentico potere “dietro le quinte”. In realtà, nello Stato capitalista tutti i partiti e i sindacati borghesi-revisionisti, indipendentemente dalle denominazioni che si affibbiano, si trovano alle dipendenza del padronato.

Kardelj dà ragione agli “eurocomunisti” quando questi legano la loro lotta politica per il “socialismo” con la difesa delle istituzioni pluralistiche delle forze politiche, poiché tale fatto, come egli afferma, “nell’attuale situazione dei paesi dell’Europa Occidentale è l’unica via reale per l’unione delle forze della classe operaia stessa e il collegamento con le altre forze democratiche del popolo, l’unico modo di consolidare, sostanzialmente, le posizioni sociopolitiche della classe operaia e di renderla capace non solo di criticare la società, ma anche di trasformarla” (p. 41).

Esprimendo i legami, la solidarietà e l’unità della lega dei “Comunisti” di Jugoslavia con gli “eurocomunisti” e con tutti gli altri partiti revisionisti che difendono, in un modo o nell’altro, il capitalismo e si battono contro la rivoluzione e il socialismo autentico, Kardelj afferma: “…abbiamo ragione di difendere il sistema parlamentare e il pluralismo politico, quando essi vengono attaccati dalle forze reazionarie della società borghese” (p. 61). “L’ideologo” intende dire con ciò che la classe operaia e gli pseudocomunisti dell’Europa Occidentale hanno ragione d’unirsi alle istituzioni capitaliste, al parlamento e al governo borghese, poiché attraverso questa unione, e solo in tal modo, la classe operaia sarà in grado di trasformare la società!

Da quello che abbiamo esposto, risulta del tutto chiaro che la società “autogestionaria” jugoslava è per una stretta alleanza o per la fusione del capitalismo e del socialismo, poiché gli attuali capitalisti non sarebbero affatto contrari all’edificazione di una società nuova, in cui la classe operaia divenisse idonea ad assumersi pienamente i diritti democratici di “autogestione”. Quindi, non è difficile capire che l’autore del libro raccomanda il passaggio dalla “società dei consumi”, in cui, a suo dire, i tecnocrati avrebbero preso il potere in mano, ad una società “di autogestione in cui gli individui si socializzano nel lavoro collettivo”, e tale passaggio può essere considerato come una vittoria del socialismo! In questi giudizi e atteggiamenti da rinnegati matricolati, non c’è niente che somigli all’autentico socialismo scientifico. Servi fedeli della borghesia capitalista, i titoisti negano, con questi scritti, la rivoluzione proletaria e la lotta di classe. Sostenendo che la “società dei consumi” può trasformarsi gradualmente in socialismo senza rivoluzione violenta, ma in virtù dello “spirito santo”, essi cercano di disarmare il proletariato e di annientare il suo partito marxista-leninista.

Nei paesi capitalisti, secondo la “scoperta” di Kardelj, il potere esecutivo è legato alle forze politiche extra parlamentari che agiscono e impongono la loro politica. Anche qui egli non ci dice niente di nuovo. Non fa che riprendere, ma presentandola come una sua constatazione, l’idea già espressa da Lenin quando egli denunciò abilmente la falsità della democrazia borghese. Far sue e ripetere le idee di Lenin è una cosa eccellente, ma il signor Kardelj non si prende cura né di Lenin, né del leninismo. Egli teme anche la “politicizzazione.”e il “monopolio politico” del leninismo, benché gli piaccia “politicizzare” gli altri e far credere ad essi che se nel regime capitalista, effettivamente, il potere esecutivo è manipolato da forze esterne agli organi dello Stato, in Jugoslavia, la Presidenza della RSF di Jugoslavia e il Consiglio Esecutivo Federativo, che costituisce il governo, sarebbero sfuggiti per miracolo a questo pericolo, poiché avrebbero provveduto “con precisione” (p. 235) alla separazione delle competenze. Inoltre, in Jugoslavia, sempre secondo Kardelj, “la forza politica è concentrata nell’assemblea dei delegati, anzi neppure in questa, ma nel collegamento di questa assemblea con l’insieme della struttura sociale” (p. 235). Questa “assemblea di delegati”, per quel che riguarda l’”onnipotenza delle sue competenze”, ci rammenta i cosiddetti consigli d’autogoverno locale nei paesi borghesi, a proposito dei quali Lenin ha scritto, in tono canzonatorio, che

“sono autonome” solo per quel che riguarda le questioni minori, che sono indipendenti solo quando si tratta di stagnare le caldaie” (V. I. Lenin. Opere, vol. 10, p. 366).

Si dice che nell’”autogestione operaia” i “delegati” esprimono liberamente le loro opinioni. Naturalmente, in teoria, non solo i “delegati” ma anche gli operai sono investiti di tutti i diritti, tuttavia nella pratica non ne godono affatto. Nel sistema politico della “autogestione jugoslava” tutto viene deciso dall’alto e non dal basso. Ormai sono note le proteste degli operai jugoslavi contro l’arricchimento e la corruzione dei dirigenti, le loro rivendicazioni per l’abolizione delle ineguaglianze economiche e sociali, per l’eliminazione delle aziende private, per frenare la corruzione politica e morale, nonché le loro proteste contro le discriminazioni razziali. In questo libro c’è una quantità di frasi lunghissime le quali, affaticando il lettore, fanno sì che costui sia costretto ad accettare l’idea astratta che “in Jugoslavia esiste l’autogestione socialista”, che in quel paese “regna l’autoamministrazione operaia”, mentre in realtà gli operai non hanno nessuna competenza. Le chiavi del governo del paese in Jugoslavia si trovano nelle mani della nuova borghesia jugoslava, che agisce dalla destra, camuffandosi con slogan di sinistra.

4 – Il sistema di “autogestione” e

la negazione del ruolo guida del Partito

I revisionisti jugoslavi mantengono un’atteggiamento antimarxista anche nei confronti del ruolo guida del partito comunista nell’edificazione dei socialismo. Secondo la “teoria” di Kardelj, il partito non può dirigere nessuna attività economica o amministrativa, esso può e deve solamente esercitare la propria influenza attraverso il lavoro educativo presso gli operai, affinché questi siano in grado di comprendere correttamente il sistema socialista.

La negazione del ruolo del partito comunista nella costruzione del socialismo e la riduzione di tale ruolo ad un “fattore ideologico” e “orientativo” sono in aperto contrasto con il marxismo-leninismo. I nemici del socialismo scientifico “argomentano” questa tesi, sostenendo che la direzione del partito è incompatibile con il ruolo determinante che debbono svolgere le masse di produttori, le quali, secondo loro, sono chiamate ad esercitare la loro influenza politica direttamente e non per il tramite del partito comunista poiché una tal cosa rischierebbe di provocare il “dispotismo burocratico”!

Contrariamente a queste tesi antiscientifiche dei nemici del comunismo, l’esperienza storica ha dimostrato che il ruolo guida ed esclusivo del partito rivoluzionario della classe operaia è indispensabile nella lotta per il socialismo e il comunismo. Si sa che il ruolo dirigente del partito è una questione di vitale importanza per le sorti della rivoluzione e della dittatura del proletariato, questione che riflette una legge generale della rivoluzione socialista. Lenin dice che

“la dittatura del proletariato può essere realizzata solo attraverso il partito comunista” (V. I. Lenin. Opere, vol. 32, p. 226).

L’influenza politica diretta delle masse lavoratrici nella società socialista non può in nessun modo essere ostacolato dal partito comunista, che rappresenta la classe operaia ed i cui interessi non sono contrari agli interessi degli altri lavoratori. Al contrario, solo la direzione della classe operaia e della sua avanguardia può garantire l’ampia partecipazione delle masse lavoratrici al governo del paese e la difesa dei loro interessi. In un paese veramente socialista, come l’Albania, il parere diretto delle masse lavoratrici viene sollecitato a proposito dei problemi importanti. Gli esempi a questo riguardo sono innumerevoli, ma noi menzioneremo qui soltanto le consultazioni popolari che hanno avuto luogo in occasione della discussione e dell’approvazione della Costituzione, dell’elaborazione dei piani economici, ecc. ecc. Il “dispotismo burocratico” è una caratteristica tipica dello Stato capitalista e non può essere mai confuso con il ruolo dirigente del partito nel sistema di dittatura del proletariato, che per la sua indole e il suo carattere è rigorosamente antiautocratico.

Proseguendo a svolgere le sue idee revisioniste sul ruolo del partito, Kardelj scrive che, “benché debbo lottare affinché le principali funzioni del potere siano nelle mani delle forze soggettiviste che sono dalla parte del socialismo e dell’autogestione socialista”, la lega dei Comunisti “…non può essere un partito politico di classe” (p. 19). Ecco quale specie di partito desiderano avere i revisionisti jugoslavi! Essi non vogliono, e in realtà non hanno un partito politico della classe operaia, ma un’organizzazione borghese, un circolo ove ciascuno può entrare e uscire, quando vuole e come vuole, purché dichiari di essere “comunista” senza che lo sia effettivamente. Naturalmente, questa è una pratica normale per un partito come la Lega dei “Comunisti” di Jugoslavia, che non ha assolutamente niente di comunista.

Non ci sono stati mai e non ci saranno mai un partito e uno Stato non di classe. Lo Stato e i partiti sono un prodotto di classe. Così sono nati e così saranno i partiti e gli Stati fino all’avvento del comunismo.

Benché consideri come liquidato il ruolo guida della lega dei “Comunisti”, tuttavia egli, per demagogia, non dimentica di affermare che questa lega, “con le sue posizioni chiare (che in realtà non sono affatto chiare, ma al contrario assai oscure e confuse), deve sforzarsi di trovare i mezzi necessari per risolvere i molteplici problemi, soprattutto quelli che riguardano le vie e le forme dell’ulteriore sviluppo del sistema politico di autogestione socialista”. Se non sono lo Stato e il partito ad assicurare la felicità al popolo, come scrive il rinnegato Kardelj, allora perché egli chiede che la lega dei “Comunisti” di Jugoslavia sia investita di queste prerogative? Se la società di “autogestione” jugoslava non ha bisogno della direzione di un partito politico unico, come essi sostengono, a che cosa quindi servirebbe il ruolo guida della lega dei “Comunisti” di Jugoslavia?

Mentre Marx è per un vero partito della classe operaia, che sia in grado di guidarla e di renderla cosciente della sua missione storica, secondo Kardelj, il proletariato può far progredire il paese e realizzare le sue aspirazioni in modo spontaneo, anche senza il ruolo guida del partito. Egli sostiene questa tesi per giustificare la teoria dell’”autogestione”, teoria che è a favore sia del pluralismo politico, cioè dell’unione nella cosiddetta Lega Socialista del Popolo lavoratore di tutte le forze sociali, indipendentemente dalle loro differenze ideologiche e politiche, sia per un partito che non ha niente di comunista, ma al quale egli appiccica l’etichetta di dirigente di tutto il sistema antimarxista dell’”autogestione”.

Il revisionista Kardelj parla del burocratismo dei partiti occidentali del capitale. Anche in questo caso egli non ha scoperto niente di nuovo, poiché sappiamo che il burocratismo è inerente alla natura del capitalismo e ne costituisce una peculiarità caratteristica. E se denuncia il burocratismo degli altri partiti, egli non lo fa per criticarli, ma per dissimulare la burocratizzazione e poi la liquidazione del Partito Comunista Jugoslavo e di tutte le prerogative che gli erano attribuite. Lasciare il partito alla coda degli avvenimenti, dei fenomeni, dei processi della vita politica e sociale, nonché trasformarlo in un partito della borghesia, significa per i titoisti sburocratizzare il partito, e per camuffare il loro tradimento, essi gli hanno lasciato soltanto il nome di “Lega dei Comunisti di Jugoslavia”, come una reliquia.

Per distinguere se un partito è o non è comunista, se è o non è un partito della classe operaia, non si può giudicare soltanto dal nome che porta, ma soprattutto dal fatto chi sono coloro che lo dirigono e quale è l’attività che esso svolge. Lenin diceva:

“…se un partito è o non è davvero un partito politico operaio, ciò dipende… anche dalla questione di sapere chi sono coloro che lo dirigono e quale è il carattere della sua azione e della sua tattica politica” (V. I. Lenin. Opere, vol. 31, p. 285).

E’ in realtà la Lega dei “Comunisti” di Jugoslavia non solamente non ha potuto evitare il burocratismo, ma già da tempo essa non esiste più in quanto partito dei comunisti jugoslavi. Il fatto stesso che fra l’altro si è gonfiata di molteplici apparati, di innumerevoli funzionari e stipendiati burocrati, così come i partiti revisionisti occidentali o i partiti socialdemocratici, questa Lega non solamente non costituisce più l’avanguardia della classe operaia, ma è diventata anche un partito contrario a questa classe.

In Jugoslavia non esistono più né il ruolo dominante della classe operaia, né il suo partito d’avanguardia, in quanto direzione dello Stato e della società. Secondo Kardelj, in Jugoslavia la lega de “Comunisti” non ha più nessun diritto alla direzione politica nel sistema statale, poiché il potere viene esercitato ” … attraverso il sistema della delega” mentre la Lega dei “Comunisti”, in quanto componente del sistema autogestionario, è uno dei fattori più importanti dell’influenza sociale sulla formazione della coscienza degli autogestionari e degli organi dei delegati” (p. 73). Ritengo che sia inutile dare spiegazioni al riguardo. Queste parole del rinnegato bastano a convincerci che in Jugoslavia la dittatura del proletariato non esiste più in quanto dominio politico della classe operaia e direzione statalista della società da parte di questa classe. E dal momento che questa dittatura non esiste più, non si può parlare neppure dell’esistenza del partito della classe operaia, ma di un partito della borghesia.

Kardelj sostiene che “il sistema a partito unico” in un paese socialista è una trasformazione specifica del sistema politico borghese e che il partito (e qui egli sottintende il Partito bolscevico) svolge un ruolo identico a quello svolto nel “sistema pluripartitico” del pluralismo politico borghese, con la sola “piccola” differenza che nel sistema a partito unico alla testa del potere politico si trovano i dirigenti di questo partito, mentre nel sistema pluripartitico gli uomini si succedono al potere. Questo mistificatore pone sullo stesso piano i partiti borghesi e il Partito dei bolscevichi creato dai rivoluzionari russi con a capo Lenin. Per lui non vi è nessuna differenza fra la direzione dello Stato e della società da parte dell’autentico partito dei comunisti e il dominio della borghesia attraverso il sistema pluripartitico. Ciò conferma un’altra volta che i titoisti, così come la borghesia, trattano i partiti politici e lo Stato come istituzioni che sarebbero al di sopra delle classi.

Se la classe operaia si oppone alla borghesia in una lotta per la vita e per la morte e se queste due classi si organizzano in partiti politici per difendere i loro interessi antagonisti e per dominare nella società, ciascuna per proprio conto, ciò non vuol dire che il partito della classe operaia, il partito marxista-leninista, sia identico al partito borghese. Al contrario, quando il Partito Comunista di Jugoslavia si trasformò in partito borghese, esso non diventò in nessun modo un partito al di sopra delle classi, ma da avanguardia della classe operaia si trasformò in strumento della borghesia, perdendo solamente il suo carattere proletario di classe, ma non il suo carattere di classe in generale, essendo diventato un partito della nuova classe borghese. La differenza fra il partito comunista e un partito borghese nella direzione dello Stato non è una “piccola” differenza, ma una differenza molto grande, profonda, di principio, di classe, e non la si può ridurre all’”avvicendamento” dei loro dirigenti nel potere politico, come sostiene questo rinnegato.

Con queste “teorizzazioni” sulla “piccola differenza” fra il sistema politico borghese e il sistema socialista, fra il partito borghese e il partito marxista-leninista, i revisionisti jugoslavi vogliono dire che non si deve attribuire grande importanza al loro precipitoso ritorno indietro verso il capitalismo. E’ del tutto chiaro che i revisionisti jugoslavi non possono tradurre in teoria posizioni differenti da quelle che adottano in pratica.

Blaterando sulle “carenze del sistema a partito unico” e cercando in questo modo di attaccare la costruzione del socialismo in Unione Sovietica nel periodo di Lenin e Stalin, egli scrive: “Innanzi tutto vi si rileva la tendenza all’unione personale dei dirigenti del partito con l’apparato esecutivo statale e, per ciò stesso, il partito si trasforma in uno strumento dell’azione delle tendenze tecnoburocratiche nella società” (p. 64).

“Al fine di evitare” questo “tecnoburocratismo” e questa tendenza all’”unione personale dei dirigenti del partito con l’apparato esecutivo statale del socialismo”, che essi attribuiscono arbitrariamente ai bolscevichi, i signori revisionisti jugoslavi hanno creato un loro sistema particolare che non è altro che una dittatura del gruppo titoista. Nelle cosiddette assemblee delle comunità autogestionarie e nei loro apparati esecutivi, stando alle stesse affermazioni dell’autore del libro, ” … ora si manifestano in modo molto potente le tendenze burocratico-centriste” (p. 232). In Jugoslavia il potere è manipolato da Tito e della sua cricca. Malgrado le loro presunte assicurazioni di non aspirare al potere, il presidente della Lega dei “Comunisti” di Jugoslavia è presidente a vita dello Stato jugoslavo e tutti i funzionari con posizioni chiave nel potere, nell’esercito, nell’economia, nella politica estera, nella cultura, nelle organizzazioni sociali, ecc. occupano anche importanti cariche nella lega dei “Comunisti” di Jugoslavia. Tutto sta nel fatto che mentre attaccano gli insegnamenti marxisti-leninisti sulla direzione del partito proletario nella società socialista, i revisionisti jugoslavi in pratica si sforzano di tener forte in pugno le redini del potere. La cosiddetta Presidenza della Jugoslavia non è stata creata in quel paese per garantire la direzione collegiale dello Stato, né per combattere il burocratismo su cui poggia, né per difendere lo Stato jugoslavo dalle forze dominanti che gli sono estranee, come l’abbiamo sentito dire talvolta, ma come un disperato tentativo di garantire il dominio dei titoismo dopo la morte di Tito. Ciò dimostra che non solo nel suo contenuto, ma anche nella sua forma, il regime jugoslavo non è altro che un potere capitalista che opprime il popolo, cercando di mascherarsi dietro slogan mistificatori.

Kardelj non può cancellare quel periodo oscuro della storia della Jugoslavia, quando dopo il tradimento della direzione del Partito Comunista di Jugoslavia e l’instaurazione della dittatura titoista, i popoli di quel paese hanno provato a loro spese le ingiustizie, la violenza e il terrore più sfrenati. Il portavoce titoista, Kardelj, si sforza di cancellare questo periodo oscuro attraverso slogan volti a dissuadere i popoli di Jugoslavia dal lagnarsi delle sofferenze patite, poiché “la nostra stessa rivoluzione socialista consisteva, nella sua prima fase, in un sistema a partito unico di democrazia rivoluzionaria, che non ha tuttavia mai assunto la forma “classica staliniana” (pp. 64-65). Questo impudente rinnegato non è neppure degno di evocare “la forma classica staliniana”, che è stata una forma talmente democratica e socialista che non solamente il regime di Tito-Kardelj-Rankovich non le somiglia in niente, ma che sarebbe vergognoso paragonarlo ad essa. I mostruosi crimini non furono perpetrati in Jugoslavia nel periodo in cui questo paese intratteneva relazioni d’amicizia con Stalin e l’Unione Sovietica del suo tempo, ma proprio dopo la rottura di quest’amicizia e dopo che la Jugoslavia imboccò apertamente la via dell’”autogestione”.

Attualmente in Jugoslavia, secondo la “teoria” di Kardelj, l’unione personale degli organi esecutivi della Lega dei “Comunisti” di Jugoslavia e degli organi esecutivi dello Stato sarebbe eliminata “completamente” e “radicalmente”, poiché la Lega dei “Comunisti” di Jugoslavia sarebbe stata privata di tutte le attribuzioni che gli permettevano di svolgere il ruolo di forza dirigente sul piano ideologico e politico nella società. Il suo unico ruolo consisterebbe nell’esercitare la propria influenza sulle masse.

Ma come e a proposito di che cosa questa specie di Lega potrebbe influire sulle masse, dal momento che non è investita di nessuna competenza per dirigere? In nulla. In un momento di scoraggiamento, Tito ha ammesso che la “Lega dei Comunisti di Jugoslavia si è ridotta ad una organizzazione amorfa, apolitica”. Ma per evitare lo scredito totale dei titoisti, Kardelj, rettificando le affermazioni del suo capo, scrive che “…la lega dei Comunisti è divenuta uno dei pilastri più potenti della democrazia di tipo nuovo, – della democrazia del pluralismo di interessi autogestionari” (p. 65).

Se l’”autogestione” jugoslava ha privato la Lega dei “Comunisti” di Jugoslavia del suo ruolo di direzione politica, si capisce che tale “autogestione” ha agito nel medesimo senso anche nei confronti della classe operaia, dal momento che questa può esercitare le sue prerogative solo attraverso la sua avanguardia – il partito comunista. Se l’avanguardia della classe viene privata del suo potere di direzione, è assurdo pretendere che la classe eserciti i diritti che le spettano. In queste condizioni, non è difficile capire come possono “autoamministrarsi” il proletariato e le altre masse lavoratrici in questa specie di democrazia di “tipo nuovo”! Ecco quello che Kardelj dice in merito: “La Lega dei comunisti non domina per il tramite del monopolio politico, ma essa esprime una forma specifica degli interessi della classe operaia che è importantissima dal punto di vista sociostorico, e conseguentemente esprime anche gli interessi di tutti i lavoratori e della società ” nel sistema di autogestione e di Potere della classe operaia e del popolo lavoratore, sistema che si basa sul pluralismo democratico degli interessi dei soggetti autogestionari” (pp. 65-66).

Da questa fraseologia ampollosa e confusa emerge il fatto incontestabile che in Jugoslavia il partito è al rimorchio, che esso esiste soltanto sulla carta. Benché formalmente si pronunci per il rafforzamento del ruolo del partito, nel modo in cui lo concepisce, Kardelj non ha potuto tuttavia evitare affermazioni come questa: “…La Lega dei Comunisti di Jugoslavia non è politicamente e in modo creativo abbastanza presente… nel complesso del sistema democratico di autogestione e nella creazione della politica e della pratica delle altre organizzazioni sociali e politiche…” (pp. 263-264). Ma dove allora è presente la Lega se non lo è nei settori in cui deve esserlo, allorché in Jugoslavia, come informava di recente l’agenzia di stampa TANJUG, nei due terzi dei villaggi mancano le organizzazioni di base della Lega dei “Comunisti”? Kardelj non è in grado di dare una risposta a questo scabroso quesito, ma l’analisi concreta dell’attività pratica svolta dalla Lega dimostra in modo incontestabile che essa come “partito dei comunisti” non è presente in nessun luogo, mentre è onnipresente come partito della nuova borghesia jugoslava e della dittatura fascista di Tito.

In questo “socialismo autogestionario” jugoslavo, che Kardelj si è impegnato di trattare “teoricamente”, la Lega dei “Comunisti” di Jugoslavia occuperebbe sempre, in tutti i campi, una posizione specifica. Questa posizione specifica, che si denota in tutto il libro, può essere interpretata come si vuole, cioè come posizione specifica nell’educazione dei lavoratori, come posizione specifica in rapporto al proletariato, come posizione specifica nel cosiddetto sistema di delega, al quale non deve partecipare e dove non può dirigere dal timore di non garantirsi un “monopolio politico”, ed altre specifiche. Questo partito, con questa infinità di posizioni specifiche, nell’ambito del potere di delega della cosiddetta Lega Socialista del Popolo Lavoratore di Jugoslavia, ha il diritto di avere nelle assemblee la propria delegazione per il tramite della quale collabora con le altre delegazioni “autogestionarie”. Ciò dimostra che la Lega dei “Comunisti” di Jugoslavia non è investito di nessuna forza politica indipendente e che da tempo fa le veci di un covo di agenti del federalismo anarchico jugoslavo. Essa esiste solo per far piacere al capitale straniero, che ha messo radici nel paese, e per dargli garanzie che l’”autogestione” non lede il sistema della proprietà privata, che nessun partito, di qualsiasi specie sia, non modificherà la linea dello Stato anarcosindacalista.

Secondo E. Kardelj, la sola cosa che conta è il ruolo dell’individuo nella società, mentre la classe operaia e il suo partito non sono niente. Stando alle sue affermazioni, non è il partito marxista-leninista ad essere l’avanguardia della classe operaia, ma lo sono le “comunità autogestionarie” cioè un’organizzazione astratta, improvvisata per operare una presunta trasformazione importante, ma che infatti non ha nessuna esistenza reale. La classe operaia non è considerata da questo revisionista come la classe dirigente della società, ma viene confusa con tutti i lavoratori. Tutto il popolo jugoslavo, continua Kardelj, può essere considerato come avanguardia, naturalmente, a condizione di mettere alla testa di quest’”avanguardia” l’uomo, il quale esprime e realizza “liberamente” (cioè in modo anarchico) i propri scopi (in questa società anarchica). Questi ragionamenti di Kardelj dimostrano chiaramente che da tempo in Jugoslavia la classe operaia ha cessato di agire unita e ha perso il ruolo dirigente nella società di quel paese. Non avendo più nelle sue mani il partito e il potere, la classe operaia jugoslava non solo non è al potere ma è stata messa su posizioni di una classe sfruttata dalla nuova borghesia, che domina le masse lavoratrici attraverso il potere dello Stato da essa manipolato.

Per sfuggire all’accusa secondo cui l’atteggiamento negatore nei confronti del ruolo dirigente del partito della classe operaia è un tradimento verso gli interessi di questa classe, il noto traditore ha preso dal “Manifesto dei Partito Comunista” di Marx e di Engels le seguenti citazioni:”I comunisti non costituiscono un partito a sé contrario agli altri partiti operai”, “essi non hanno assolutamente interessi che li separano dall’insieme del proletariato”, “non stabiliscono princìpi secondo cui vorrebbero modellare il movimento operaio”. Con simili citazioni, Kardelj cerca di creare l’impressione che secondo l’opinione di Marx ed Engels i comunisti non avrebbero bisogno di avere il loro partito, dal momento che esso non è un partito con caratteristiche, interessi e principi particolari da quelli degli altri partiti operai. Che rinnegato! Senza il minimo scrupolo, egli considera il proletariato da un’angolazione antimarxista e socialdemocratica, come una massa amorfa che lotterebbe, a suo dire, per i suoi interessi generali, ma che è privo di qualsiasi principio, di qualsiasi dirigenza di classe e rivoluzionaria, di qualsiasi programma di lotta per la conquista dei suoi diritti!

Marx ed Engels, nel secondo capitolo dell’opera del comunismo scientifico “il Manifesto del Partito Comunista”, hanno definito in modo geniale la missione storica del Partito Comunista in quanto parte integrante della classe operaia, in quanto suo reparto d’avanguardia, ecc. ecc., ma non hanno mai pensato che i comunisti non debbano avere il loro partito. Al contrario, se hanno scritto il Manifesto di questo partito, che è considerato come il primo documento-programma scientifico del comunismo, essi lo hanno fatto proprio perché i comunisti abbiano il loro partito.

5 – Il pluralismo politico-ideologico, la

“democrazia” e l’edificazione “socialista”

in Jugoslavia

Con la sua teoria Kardelj pone “il pluralismo degli interessi dei lavoratori” e in questo pluralismo sottolinea in modo particolare la funzione della cosiddetta Lega Socialista del Popolo Lavoratore che, secondo lui, sarebbe capace di riunire tutte le forze sociali, senza tenere conto delle differenze in campo ideologico. “La Lega Socialista” è in realtà un’associazione che esiste solo formalmente e di cui nessuno si cura in Jugoslavia. Anche Kardelj si è lasciato sfuggire questa verità quando scrive: “Credo di non esagerare se affermo che la sottovalutazione della funzione sociale della Lega Socialista… è un fenomeno assai diffuso nella Lega dei Comunisti, anzi non solo tra i suoi membri” (pp. 272-273). Parlando più avanti dell’attività di questa “associazione di tutte le forze organizzate della società”, come la chiamano in Jugoslavia, Kardelj è nuovamente costretto a menzionare la sua funzione formale, scrivendo: ” … spesso la Lega Socialista risolve i problemi piuttosto in modo formale, vale a dire con risoluzioni e dichiarazioni e molto meno in realtà” (p. 276). Queste affermazioni, che Kardelj naturalmente considera come semplici carenze, sono sufficienti a dimostrare in modo incontestabile che cosa rappresenti quest’associazione priva di animo.

Secondo Kardelj, il pluralismo dell’”autogestione socialista” si esprime nell’ambito della “Lega Socialista”. che racchiude nel suo seno tutte le tendenze “democratiche progressiste” (tutte le correnti e perfino quelle regressive), i cui rappresentanti hanno il diritto di parlare e di decidere della politica della Jugoslavia. In realtà. a eccezione della cricca titoista, nessun altro può decidere in questo fronte, che Kardelj chiama pluralismo degli interessi “autogestionari” per dimostrare che la Jugoslavia non sarebbe favorevole alla creazione di molti partiti, ma di uno solo a condizione però che questo partito non sia unica forza dirigente della società.

“La lega dei Comunisti di Jugoslavia, dice Kardelj, è investita di particolari responsabilità politiche nella società, “che naturalmente spartisce con tutte le altre forze socialiste sociali” (p. 74) e, a causa di questa spartizione delle responsabilità, in Jugoslavia esisterebbe il “pluralismo democratico”. Secondo lui “il pluralismo democratico”, quindi non il pluralismo di molti partiti, ma il pluralismo nell’ambito della “Lega Socialista”, che conserva anche il sistema del partito unico, sarebbe più indicato in Jugoslavia. In altri termini, secondo quest’idea nell’ambito della cosiddetta lega Socialista operano la “Lega dei Comunisti” ed altre organizzazioni “sociopolitiche” che “sono formazioni indipendenti… di cui la Lega dei Comunisti ne è una componente e, in quanto tale, svolge un’attività collegiale … ” (p. 267).

Senza prolungarci possiamo affermare che questo “pluralismo”, comunque si chiami, “pluralismo democratico”, “pluralismo degli interessi dei lavoratori”, oppure diversamente, in realtà si differenzia solo formalmente dal pluralismo borghese. Se nello Stato capitalista esistono molti partiti, che operano nel parlamento e vi esercitano la loro influenza, esprimendo gli interessi dei principali strati della borghesia o di qualche altra classe, anche jugoslava operano la Lega dei “Comunisti” ed altra leghe che non sono chiamate partiti, ma organizzazioni sociali e politiche che cercano di esprimere gli interessi della piccola borghesia, dell’aristocrazia operaia ecc., ecc. e di salvaguardare questi interessi nello Stato capitalista jugoslavo. Perciò la conclusione dei revisionisti jugoslavi, secondo cui “il nostro sistema politico, lungi dall’essere un sistema a partito unico, esclude un tale sistema come pure esclude anche il pluralismo pluripartitico della società borghese”, è un’assurdità, una tesi presa in prestito dagli anarchici e anarcosinclacalisti, contro i quali hanno duramente combattuto Marx, Engels, Lenin e Stalin.

La teoria del “pluralismo politico” che sostiene Kardelj andrà a genio anche a Hua Kuo Feng e a Teng Hsiao Ping per quel che concerne la parità di diritti dei vari partiti nello Stato socialista, sul loro reciproco controllo e via dicendo.

Scrivendo con vanto degli indirizzi di sviluppo del sistema politico di “autogestione socialista” e non volendo andare oltre i limiti, Kardelj non può fare a meno di affermare che vi sono anche esagerazioni, errori e carenze, poiché “in molte sfere i nuovi rapporti non hanno cominciato ancora a funzionare in modo soddisfacentemente” (p. 26). Ma anche se non dovesse ammetterlo, la realtà jugoslava dimostra ogni giorno come l’”autogestione” si sia introdotta in un vicolo cieco; e le sue confortanti dichiarazioni, nel definire l’”autogestione” “il sistema socialista più qualificato”, non possono essere credute da chi conosce da vicino la Jugoslavia e il suo sistema politico.

Il sistema politico di “autogestione” in Jugoslavia è un impudente tentativo di mascherare il tradimento revisionista al marxismo-leninismo, al socialismo scientifico e al comunismo. I titoisti jugoslavi, in quanto antimarxisti, non sono stati e non sono per l’edificazione del socialismo, ma sono stati e sono per la perpetuazione del capitalismo sotto varie forme. Essi cercano di inventare “teorie” tra le più svariate affinché l’irrefrenabile processo di disgregazione dell’ordinamento sociale capitalista sia almeno rallentato. Secondo i revisionisti jugoslavi, qualsiasi popolo e qualsiasi Stato può costruire il socialismo senza basarsi sulle sue leggi e sui suoi principi, senza tener conto dell’ideologia marxista-leninista. Essi non ammettono che il socialismo è un sistema economico e sociale unico, ma pretendono che possono esistere vari tipi di socialismo. Sfruttando abusivamente e distorcendo la giusta tesi marxista-leninista dell’applicazione in modo creativo dell’ideologia della classe operaia nelle particolari condizioni di ogni paese, essi insistono che non esistono leggi generali per l’edificazione del socialismo in tutti i paesi, ma che ogni paese, secondo il suo desiderio e la sua maniera, può costruirsi un “socialismo” diverso dagli altri.

E’ vero che nell’edificazione socialista occorre senz’altro tenere conto delle condizioni concrete di ogni paese, ma il socialismo in ogni paese può essere costruito solo in base al marxismo-leninismo, in base a leggi e principi comuni a tutti i paesi, dai quali non ci si può scostare se non si vuole tornare di nuovo al capitalismo, come ha fatto la Jugoslavia.

Al fine di “dimostrare” la tesi secondo cui ogni paese deve costruire il suo socialismo specifico, i revisionisti jugoslavi affermano, per mezzo di Kardelj, che l’”autogestione socialista non può essere imposta per esempio alle democrazie borghesi d’Europa o alla democrazia americana”, per il fatto che queste non avrebbero ancora realizzate le condizioni che sono quelle della Jugoslavia. A sentir loro, al socialismo si può andare anche attraverso il pluralismo politico del sistema parlamentare occidentale, ma anche senza questo pluralismo. Ogni paese, quindi, senza basarsi su nessuna esperienza ed anzi neppure sulla teoria del socialismo scientifico di Marx ed Engels, potrebbe edificare il suo socialismo specifico. Tuttavia, essi, presentando l’”autogestione” come il migliore sistema del mondo, pensano che questo sistema, a prescindere dalla via specifica che ogni paese segue per l’edificazione del socialismo, può essere adottato e applicato a livello internazionale!

Spinto dal suo soggettivismo e dalla sua smoderata animosità contro l’esperienza dell’edificazione del socialismo nell’Unione Sovietica dell’epoca di Lenin e Stalin, Kardelj si scagliò con tanta frenesia contro quest’esperienza e perde a tal punto la misura nei suoi giudizi, da considerare tale esperienza un processo reazionario e identico al pluralismo politico di tipo europeo. Ecco in quali termini si esprime a questo proposito: “Perciò i tentativi di imporre per esempio il pluralismo specifico politico di tipo europeo a quel paese in cui non esistono né le condizioni né alcuna necessità per un simile sistema, svolgono in realtà, nei processi sociali contemporanei, un ruolo reazionario uguale a quello dei tentativi di imporre questo o quel “modello” di socialismo a quei paesi che non hanno né le condizioni né il bisogno di un simile “modello” (p. 49). Tutta questa filastrocca non è altro che un gioco di parole che persegue un unico scopo: rigettare il marxismo-leninismo e le leggi generali dell’edificazione della società socialista, ingannare le masse e perpetuare il sistema capitalista abbellendolo di vari colori “socialisti”. Ecco la ragione perché nel suo cencio intitolato: “Gli indirizzi di sviluppo del sistema politico di autogestione socialista”, egli non fa mai cenno alla vera distruzione del potere del capitale.

Secondo questo “grande ideologo” jugoslavo, mentre il pluralismo politico del parlamentarismo borghese è un sistema che trasforma l’individuo in un “cittadino politico astratto”, lo rende passivo e gli impedisce di diventare un soggetto di determinati interessi concreti, umani e sociali, in Jugoslavia invece il cittadino non corre il rischio di trasformarsi in “cittadino politico astratto”, poiché l’”autogestione” gli insegnerebbe a difendere, innanzi tutto, i suoi interessi concreti! Anche questa tesi, come le altre tesi di Kardelj, è ben lontana dalla verità. Il suo famoso cittadino “politicizzato” nei paesi capitalisti non rimane con le mani in mano. Se è vero che in quei paesi all’uomo lavoratore sono stati negati i suoi diritti, se è vero che le leggi del capitale non gli permettono di difendere i suoi interessi, è altrettanto vero che gli operai s’impegnano e si battono per spezzare le catene della schiavitù capitalistica. Negare questa lotta che conduce la classe operaia nel capitalismo significa andare contro i fatti.

Nell’ordinamento sociale capitalista non tutti gli uomini obbediscono alla politica e alle norme della morale borghese. Anzi, la stragrande maggioranza dei membri della società capitalista – il proletariato e le altre masse lavoratrici oppresse e sfruttate – lungi dal sottomettersi alla politica e alla morale borghese, la contrastano e le oppongono resistenza sotto varie forme e con molteplici mezzi. Kardelj è certamente a conoscenza di questo, ma egli distorce i fatti per poter affermare che nel suo “socialismo specifico” l’individuo, l’uomo, il cittadino occuperebbe il posto principale e non verrebbe “politicizzato” dal partito, che questo individuo concreto nel sistema politico della “autogestione”, e solo in questo sistema, potrebbe difendere molto facilmente i propri interessi concreti! Volendo essere coerenti e ragionare fino in fondo secondo la logica di Kardelj, dovremmo allora ammettere l’assurdità che più di un milione di disoccupati che si contano in Jugoslavia e che soffrono la fame, si troverebbero in queste condizioni non per colpa del sistema di “autogestione”, ma della propria negligenza, non avendo voluto difendere i loro interessi concreti! Nella Jugoslavia “socialista autogestionaria” i lavoratori sono stati disarmati politicamente al punto di non essere in grado di difendere neppure i loro diritti più generali. Nella loro schiacciante maggioranza essi hanno una sola preoccupazione, quella cioè di conservare il posto di lavoro o di trovare un’occupazione, se non ne hanno una, di assicurarsi all’interno del paese o all’estero i mezzi di sussistenza. Pochi sono infatti i lavoratori che s’interessano di sapere che cosa sia questo “sistema di autogestione”, che cosa siano “il lavoro associato”, “il pluralismo democratico” ecc. A ciò mirano fra l’altro anche i titoisti con l’invenzione del loro “socialismo autogestionario”, a fare sì che i lavoratori partecipino il meno possibile alla difesa dei loro diritti, s’interessino il meno possibile di politica, badino solo al loro gretto interesse personale e trascurino i comuni interessi di classe.

Nel sistema del parlamentarismo borghese, secondo Kardelj, la classe operaia si “politicizza” in modo inevitabile, poiché il sindacalismo e la lotta sindacale non le assicurano una via verso il potere politico. Più avanti egli afferma che tale “Politicizzazione” divide la classe operaia in partiti e così viene a crearsi, sempre secondo lui, un pericolo nuovo, cioè che la “burocrazia del partito” cominci ad agire a nome della classe.

E’ vero che nei paesi capitalisti la lotta nell’ambito del sindacalismo non garantisce alla classe operaia il potere politico, cosa che costringe gli operai ad organizzarsi in partiti politici per difendere i loro interessi di classe. A Kardelj non preme molto smascherare il sindacalismo, né i vari partiti “operai” che vengono costituiti nei paesi occidentali e con i quali i revisionisti jugoslavi sono in alleanza. Egli vuole dimostrare che il parlamentarismo borghese e i partiti borghesi, come pure gli altri partiti comunisti, revisionisti e i sindacati, tutti quanti dividono la classe operaia, quindi, secondo lui, questi partiti vanno liquidati. La borghesia e i revisionisti non si risentono di questo atteggiamento del loro amico, poiché si rendono bene conto che Kardelj ha in visto solo la liquidazione degli autentici partiti marxisti-leninisti, mentre gli altri partiti, quelli della borghesia, possono continuare ad esistere, visto che questi partiti, qualunque sia il loro numero, non ostacolano la trasformazione dell’ordinamento capitalista in “ordinamento socialista”!

Non c’è da stupirsi se Kardelj descrive alcuni fenomeni “in teoria” in un modo del tutto differente da quello che sono in pratica. Filando le sue tesi, il ciarlatano nasconde le numerose manipolazioni a cui si è fatto ricorso in Jugoslavia per trasformare in società capitalista quella società che inizialmente, tanto per mascherarsi, si era impegnata in una presunta direzione socialista. Anche se a causa della posizione che difende, Kardelj non è e non può essere coerente, in realtà egli è favorevole al sistema parlamentare borghese, che è costretto di presentare sulla carta come diverso dal sistema “specifico” jugoslavo. La sua incoerenza appare quando egli non respinge totalmente quel sistema, ma lo chiama invece sistema democratico in cui “…la classe operaia e tutte le altre forze democratiche svolgono un importante ruolo progressista storico nella lotta per il consolidamento della posizione sociale del parlamento e per l’ampliamento delle sue attribuzioni rispetto alle forze del potere extra parlamentare” (p. 55).

Queste “teorie” di Kardelj non mirano a smascherare le tendenze che si notano oggi nello sviluppo dello Stato capitalista, in cui il potere esecutivo (il governo) allarga sempre più le sue attribuzioni ai danni del potere legislativo (il parlamento), preparando così le condizioni all’instaurazione del fascismo, nel momento in cui la borghesia monopolista lo riterrà indispensabile. Egli non si preoccupa minimamente del pericolo di fascistizzazione che minaccia oggi molti paesi capitalisti, poiché anche il suo Stato si trova sulla stessa via; quindi egli esige che la classe operaia non adempia alla sua missione storica di abbattere con la rivoluzione il potere della borghesia, come insegnano Marx e Lenin. Esprimendosi a favore del parlamentarismo borghese, suo malgrado egli rivela che in tal senso i titoisti sono soggetti a forti pressioni soprattutto ad opera del grande capitale americano e dell’Europa occidentale, che hanno fatto investimenti in Jugoslavia. Queste pressioni vengono esercitate sulla Jugoslavia al fine di svilupparvi la democrazia borghese su vasta scala, a creare cioè molti partiti: social-democratico, revisionista, “comunista” ecc. Tuttavia, benché i revisionisti jugoslavi non siano contrari al sistema parlamentare pluripartitico, non vogliono distruggere il loro sistema a partito unico che la loro propaganda presenta come “autogestionaria”, non tanto perché ciò li smaschererebbe, ma piuttosto dal timore del pericolo che potrebbe minacciare il monopolio dei titoisti in tutti gli affari statali, nell’esercito, nell’UDB e negli altri organismi di repressione, come pure negli organismi mistificatori di manipolazione borghese degli uomini.

In realtà, Kardelj non respinge quello che egli chiama “monopolio politico” nel governo della società e a proposito di cui dichiara che è stato conservato come un privilegio dei leader dei partiti politici e degli organi esecutivi della “democrazia-borghese”. In altri termini, egli non respinge né il sistema parlamentare né quello extraparlamentare, ma si dichiara contrario alle “sopravvivenze di questo sistema” che il socialismo avrebbe ereditato nelle sue fasi e nelle sue forme iniziali.

E’ evidente che Kardelj, lungi dall’attaccare la forma del parlamentarismo borghese, cerca di confrontarlo con gli organi statali della vera società socialista. Queste idee appaiono ancora più chiaramente quando egli afferma che nelle condizioni della nazionalizzazione dei mezzi di produzione, il parlamento senza “l’autogestione” degli operai sarebbe identico al sistema politico a partito unico del socialismo, basato su “la forma statalista della proprietà sociale”. Con il sistema politico basato su “la forma statalista della proprietà sociale”, Kardelj ha in vista il nostro potere dei consigli popolari come pure il potere sovietico instaurato da Lenin in Unione Sovietica per edificare la società nuova, socialista, sotto la guida del Partito Bolscevico.

Negando le finalità della Rivoluzione di Ottobre e la grande opera compiuta in Unione Sovietica durante parecchi anni di seguito per l’edificazione del socialismo sotto la guida di Lenin e poi di Stalin, il revisionista Kardelj vuole dimostrare che la Jugoslavia, la quale ha liquidato la proprietà sociale “statalista” trasformandola in “proprietà socializzata”, non avrebbe tradito, come viene accusato, ma avrebbe invece inventato un autentico Stato “socialista”, un “socialismo autogestionario”, che, sebbene non lo raccomandi “teoricamente” a tutti, le gradirebbe che tutti lo seguissero in pratica.

“II sistema a partito unico” in Jugoslavia, secondo Kardelj, attualmente non corrisponde più alla variante del “socialismo specifico”. Questo sistema fu imposto all’inizio a causa della fase che attraversava lo sviluppo della rivoluzione socialista, in quanto elemento della struttura iniziale della dittatura del proletariato, mentre ora viene giudicato “…incompatibile con i rapporti socioeconomici e democratici dell’autogestione socialista e con il suo pluralismo democratico degli interessi autogestionari” (p. 63).

I revisionisti jugoslavi fingono di non essere d’accordo con il sistema di potere pluripartitico nella società borghese, ma non vogliono neppure accettare la direzione dello Stato e della società da parte di un solo partito politico della classe operaia e pretendono di aver trovato la “giusta via di mezzo”, il cosiddetto “pluralismo democratico”. La verità è che nel sistema di “autogestione” jugoslavo vengono conservati sia elementi del “sistema a partito unico”, sia elementi del “sistema pluripartitico”. Ma questo sistema confuso non è altro che un sistema capitalista, un ripugnante prodotto della borghesia jugoslava che persegue il fine di opprimere le masse lavoratrici e di mascherarsi con una facciata “marxista”.

Nel tentativo di macchiare Lenin e Stalin, l’autore titoista cerca di confrontare l’un con l’altro questi grandi dirigenti del proletariato mondiale, per “dimostrare” che essi non avrebbero avuto concezioni identiche sul sistema politico dello Stato socialista. Ecco di quali calunnie fa uso: “Tra la concezione di Lenin e quella di Stalin a proposito del sistema politico dello Stato socialista esiste una grande discordanza. Base ed essenza della concezione di Lenin riguardo al potere dei soviet è la democrazia diretta … ” (p. 67).

E’ noto a tutti che Stalin è stato uno zelante discepolo, un compagno fedele e un intimo collaboratore di Lenin. Fino ad oggi, tranne i nemici, nessuno ha osato contrapporre Stalin a Lenin. Queste insinuazioni vengono fatte con fini ostili, ma il movimento comunista e operaio internazionale è ormai abituato alle manovre dei revisionisti, che una volta dichiararono di essere marxisti-leninisti ma “non stalinisti”, mentre ora tentano di mettere Lenin contro Marx e discutono per sapere se devono essere solo “marxisti” oppure anche “leninisti”. E domani, togliendosi interamente le maschere di rinnegati e traditori, sicuramente diranno di non essere neppure con Marx. Escogiteranno per questo anche adeguate “teorie” che potranno essere tutto quello che si vuole, ma non comuniste, non proletarie.

Lenin, da autentico marxista quale egli era, ha parlato della democrazia socialista, della diretta partecipazione delle masse lavoratrici al governo del paese e queste idee rivoluzionarie le ha applicate durante gli anni che è stato a capo dello Stato sovietico. Dopo di lui, Stalin prosegui la stessa via. Ma per democrazia socialista e per diretta partecipazione delle masse al governo. Lenin non intendeva assolutamente l’indebolimento dello Stato di dittatura del proletariato e del ruolo guida del Partito Bolscevico. Non ha mai opposto la vera democrazia alla dittatura del proletariato che definisce come

“…Stato democratico in modo nuovo (per i proletari e i nullatenenti in generale), Stato dittatoriale in modo nuovo (contro la borghesia)” (V. I. Lenin. Opere. Vol. 25, p. 488).

Qui appare assai evidente che Lenin non è stato né poteva mai essere per la sostituzione della dittatura del proletariato con questo sistema “autogestionario” inventato dai revisionisti jugoslavi per giustificare il loro ritorno al capitalismo.

Al tempo di Lenin e Stalin, in Unione Sovietica era al potere la classe operaia, che attraverso il suo partito ha guidato, diretto, pianificatore applicato con successo i compiti che poneva l’edificazione del socialismo. In Jugoslavia non hanno tenuto in nessun conto il grande ruolo dello Stato socialista, che hanno identificato con il cosiddetto “sistema di delega” il quale, come lo ammette anche Kardelj, soffre di … gravi difetti in tutti i campi del suo funzionamento” (p. 213).

Lo stesso Kardelj si rende conto che il riferimento a Lenin per la democrazia non può giovargli per giustificare sia pure minimamente “l’autogestione”, perciò cerca con sofismi di convincere gli uomini che il pensiero di Lenin ” … non e stato elaborato fino alle sue conseguenze di fatto… ma è chiaro che la sua essenza è proprio la democrazia diretta, vale a dire l’autogestione” (p. 67). Kardelj “filosofa” e cerca di rimediare alla mancanza di argomenti con interpretazioni arbitrarie, fantastiche, come meglio gli conviene. Egli si sforza di convincere gli altri che Lenin aveva cominciato bene, ma poi non aveva avuto occasione di sviluppare ulteriormente l’idea della “autogestione”, come sarebbe andato a genio a Tito e a lui. L’idea di Lenin, secondo cui il proletariato deve guidare, organizzare e dirigere il potere del soviet e deve governare il paese attraverso il suo partito, è stato ed è alla base della teoria marxista-leninista. E’ proprio tale questione essenziale, di importanza teorica e pratica, che i titoisti eludono ed è questa deviazione che essi cercano di mascherare distorcendo le giuste tesi di Lenin.

Stalin, secondo i titoisti, “…si è pronunciato per una concezione della democrazia indiretta, cioè, in essenza, ha fatto suo il sistema politico classico dello Stato borghese e il suo pluralismo politico, ma ha attribuito ad un partito il ruolo che il sistema pluripartitico assume nello Stato parlamentare borghese” (p. 68). Essi affermano che Stalin si sarebbe allontanato dalle concezioni leniniste, in quanto avrebbe attuato una “democrazia indiretta”, dirigendo lo Stato attraverso un partito che somigliava molto ai partiti borghesi e che il sistema istituto aveva le apparenze del sistema parlamentare. Ecco la critica “schiacciante” che questo pseudomarxista fa all’attività e all’opera di Giuseppe Stalin! Stalin, come Lenin, ha considerato la democrazia dall’angolazione di classe, come forma di organizzazione politica della società, come condizione politica per far partecipare le masse al governo del paese, per difendere e consolidare la dittatura del proletariato, al fine di sbarrare la via alla degenerazione revisionista e alla restaurazione del capitalismo. Stalin, da marxista-leninista quale egli era, a giusta ragione si è severamente opposto alle concezioni unilaterali, liberali ed anarchiche della democrazia ed ha criticato le manifestazioni di corruzione e di speculazioni piccolo-borghesi sui diritti e le libertà che garantisce la democrazia proletaria. Ed ha fatto molto bene. I revisionisti, al contrario, vogliono trasformare anche in teoria, come l’hanno fatto in pratica, la democrazia proletaria in una democrazia borghese. Ecco perché sono contro Stalin.

I pseudomarxisti jugoslavi cercano di giustificare la critica al vero sistema socialista con il pretesto che attualmente le nozioni “operaio” e “classe operaia” sarebbero cambiate, che anche il significato della nozione “cittadino” avrebbe subito mutamenti. Secondo loro “la classe operaia è divenuta un soggetto politico astratto che non esercita il potere, ma a nome del quale può essere esercitato il potere”. Ciò significa, quindi, che nel vero sistema socialista non sarebbe la classe operaia ad esercitare il potere, ma qualche dun’altro che, a nome suo, agisce sulla classe. Questa è una grande truffa ed un’impudente alterazione della realtà. Ciò significa attestarsi sulle posizioni filosofiche dell’idealismo prendere per vero non quello che esiste oggettivamente, ma quello che si ha nella propria immaginazione.

Da ciò il revisionista Kardelj trae la conclusione che l’operaio non svolge nessuna funzione concreta nei rapporti di produzione dell’ordinamento socialista nei suoi rapporti con gli altri operai, nella sua posizione sociale ecc. E, secondo lui, verrebbe così a crearsi “…Al dogmatismo della proprietà sociale, in quanto proprietà statale, e quindi anche la necessità dello Stato centralizzato, del ruolo guida dell’apparato statale e di quello del partito… mentre gli interessi di classe e le aspirazioni dell’operaio concreto… sono screditati, vale a dire vengono qualificati come azioni che vanno oltre i limiti delle leggi generali…” (p. 70).

Ecco come Kardelj deforma il vero sistema socialista e i rapporti socialisti di produzione del tempo di Lenin e Stalin e, conseguentemente, anche l’edificazione del socialismo nel nostro paese. Parlando contro il centralismo democratico, contro il ruolo guida del partito, contro la forma statale della proprietà socialista ecc., egli vuole dimostrare la “superiorità” del sistema di “autogestione”, ma in realtà smaschera sé stesso, mettendosi apertamente in contrasto con le immortali idee dei classici del marxismo-leninismo su questi problemi capitali. Infatti queste “accuse” che egli muove contro di noi, finiscono tutte per mutarsi in affermazioni contro il sistema politico della “autogestione” jugoslava. La realtà jugoslava sta dimostrando ora ogni giorno e lo dimostrerà ancor meglio domani dove la cricca di Tito e di Kardelj sta conducendo la Jugoslavia, il suo popolo e la classe operaia.

I titoisti affermano che il loro sistema è “autogestionario”. Ma chi sono coloro che praticano l’autogestione in Jugoslavia? Gli operai o i contadini? Né gli operai, né i contadini. Questi sono ugualmente oppressi quanto lo sono anche i loro compagni nei paesi capitalisti. Nel sistema “autogestionario” dominano coloro che stanno in cima alla piramide, i nuovi borghesi, che sono montati sul dorso del popolo servendosi dell’etichetta di “comunisti”, ma che in realtà non sono altro che tecnocrati borghesi che dirigono il potere burocratico, statalista, fascista. Questi sono gli elementi che compongono “le assemblee dei delegati”, gli organi esecutivi dello Stato nel sistema di delega e cosi via.

Come si sa, nel sistema di dittatura del proletariato le organizzazioni di massa occupano una posizione particolare e svolgono un ruolo importante. Esse sono leve attraverso cui il partito si lega con le masse e realizza il dominio politico della classe operaia e la democrazia socialista. Le organizzazioni sociali nel regime socialista sono portatrici della linea del partito proletario tra le masse, sono potenti armi della rivoluzione e dell’edificazione socialista, sono tribune combattive in cui sboccia il pensiero popolare. Esse hanno il dovere di educare le masse e di renderle coscienti e capaci a partecipare attivamente all’edificazione socialista e al governo del paese.

In quanto componenti del sistema di dittatura del proletariato, queste organizzazioni assolvono i loro doveri sotto la direzione del partito della classe operaia, nell’ambito delle loro peculiarità, delle loro caratteristiche specifiche.

Le organizzazioni sociali non possono agire isolatamente dal partito proletario, dalle altre organizzazioni e dallo Stato socialista. Ammettendo il contrario, teoricamente sarebbe assurdo che queste fossero elementi di un sistema unico e in pratica si trasformerebbero in organismi privi di vita, di qualsiasi scopo, e non assolverebbero alcun compito a vantaggio dell’ordinamento sociale socialista.

In Jugoslavia, le organizzazioni di massa sono state trattate e apprezzate, così come il partito e lo Stato, da posizioni interamente anarchiche. In contrasto con l’idea di Lenin secondo cui le organizzazioni di massa sono

“…le collaboratrici più vicine e indispensabili del potere statale…” (V. I. Lenin, Opere, Vol. 33. p. 202.),

si sostiene che la collaborazione di queste organizzazioni con lo Stato socialista è una forma di “statismo burocratico”. Per di più i revisionisti jugoslavi immaginano queste organizzazioni in modo tale che ognuna di esse possa agire in modo indipendente anche dal partito. “Noi, dice Kardelj, abbiamo abbandonato da tempo la concezione secondo cui queste organizzazioni sono una specie di cinghia di trasmissione della Lega dei Comunisti” (p. 267). Qui non si deve assolutamente intendere che il partito unico in Jugoslavia e lo Stato jugoslavo, che sono nelle mani della borghesia, non abbiano alcun potere su queste organizzazioni. I titoisti, al contrario, non hanno mai rinunciato alla manipolazione delle masse attraverso le organizzazioni sociali, ma le asserzioni di Kardelj si prefiggono altri scopi. Egli mira solo a minare i vincoli dei partiti marxisti-leninisti con le masse, mentre tutta l’esperienza rivoluzionaria dimostra che questi partiti possono creare e mantenere veri legami con i lavoratori solo attraverso le masse organizzate nelle rispettive organizzazioni dirette dal partito proletario.

Si sa che l’idea del ruolo dirigente del partito marxista-leninista è intimamente legata all’idea del carattere rivoluzionario della sua ideologia, perciò staccare le organizzazioni di massa da questo partito significa staccarle dall’ideologia marxista-leninista e colmare il vuoto con l’ideologia borghese revisionista. Questo scopo appare chiaro quando Kardelj, parlando dell’uomo in quanto membro della “Lega Socialista”, scrive: “…non è detto che i suoi punti di vista ideologici si concilino sempre e in ogni sfera con l’ideologia del marxismo” (p. 280). Ciò significa che il lavoratore jugoslavo può essere guidato da idee e da concezioni borghesi, feudali, fasciste ecc., ecc., beneficiando in questa confusione ideologica anche del sostegno del regime.

Il fatto che le organizzazioni di massa sono parte integrante del sistema di dittatura del proletariato, non vuol dire che esse, sotto la maschera della “democrazia” e della concessione di alcune attribuzioni “statali”, come è stato fatto nell’Unione Sovietica revisionista, si trasformino in “soci” o “appendici” dell’apparato statale. Attenendosi fedelmente al marxismo-leninismo, l’autentico partito della classe operaia deve stare molto attento affinché il ruolo delle organizzazioni sociali non si indebolisca, ma vada sempre più consolidandosi. In Jugoslavia, come scrive Kardelj, si riscontrano fenomeni in cui le organizzazioni di base dei sindacati “…sono divenuti appendici degli organi che gestiscono il lavoro. (p. 295). E questo per il fatto che il ruolo delle organizzazioni sociali, il loro collocamento sociale e i rapporti che devono avere con il partito e lo Stato, sono stati definiti da posizioni errate.

Nel libro di Kardelj si Parla in modo particolare anche della “Lega Socialista del Popolo Lavoratore”, dei sindacati, della “Lega della Gioventù Socialista” ecc., in merito ai quali si potrebbe scrivere e polemizzare a lungo. Non siamo però entrati nei dettagli, ritenendo che sarebbe meglio mettere in evidenza solo le deviazioni di Principio dei revisionisti jugoslavi per quello che concerne l’organizzazione, gli obiettivi e l’attività delle organizzazioni di massa.

I revisionisti jugoslavi tengono un atteggiamento reazionario anche per quello che riguarda la religione e la sua ideologia. Com’è noto, l’ideologia religiosa è stata sempre utilizzata dalle classi sfruttatrici per opprimere e sfruttare le masse lavoratrici. Essa è stato utilizzata per coltivare negli uomini il senso dell’impotenza di fronte alle sofferenze, alle sciagure e alla miseria. L’ideologia religiosa stordisce gli uomini e paralizza la loro attività volta a trasformare la natura e la società. Perciò Marx, come si sa, aveva paragonato la religione all’oppio. Egli scriveva:

“…la religione è il sospiro della creatura oppressa, il cuore di un mondo privo di cuore… La religione è un oppio per il popolo.” (K. Marx e F. Engels, “Sulla religione”. p. 45 Tirana 1970.)

Proprio per il ruolo reazionario che svolge la religione, questa è stata appoggiata e lo è ancora dalle classi dominanti. Il linguaggio dei capitalisti, dei revisionisti e dalla pretaglia reazionaria è sostanzialmente lo stesso. Il partito marxista-leninista non può conciliarsi con l’ideologia religiosa e le sue influenze. Base teorica e politica del programma dell’autentico partito della classe operaia è la filosofia marxista-leninista e non l’idealismo e la religione. La lotta di classe per l’edificazione del socialismo non può essere separata dalla lotta contro la religione.

In Jugoslavia la religione è stata considerata e trattata alla stessa stregua come negli altri Stati capitalisti. L’avvelenamento delle masse con l’ideologia religiosa è stato considerato solo come una semplice questione privata, mentre il partito e lo Stato sono rimasti semplici spettatori, visto che la religione “…non impedisce in nessun modo il credente ad inquadrarsi come tutti gli altri nella vita socialista della società” (p. 178). Si vede bene quale bel socialismo questo quando l’ideologia religiosa non è affatto in contrasto con esso e quando, come scrive Kardelj, “per la stragrande maggioranza dei lavoratori credenti il socialismo è divenuto la loro convinzione più profonda…” (pp. 179-180). Ora apprendiamo da questo “grande filosofo” che gli ecclesiastici, che hanno profonde convinzioni idealistiche e religiose, si dedicano corpo e anima anche al socialismo, all’ordinamento sociale che si basa sulla filosofia marxista, sul materialismo dialettico e storico! Leggendo queste frasi del rinnegato titoista, non solo gli operai, i comunisti e ogni altra persona onesta nel mondo rimarranno stupiti, ma gli ecclesiastici stessi si metteranno a ridere, poiché fino ad oggi neppure a loro è mai passato per la testa di affermare che amano il socialismo, che essi hanno maledetto e maledicono con tutta l’anima. Dal momento che si conciliano anche con l’ideologia religiosa, ci si può rendere conto ancora meglio quanto siano “marxisti” i revisionisti jugoslavi, guanto “materialista” sia la loro ideologia e, di conseguenza, quanto socialista sia il sistema politico della “autogestione” che si basa su quest’ideologia.

Il Partito del Lavoro d’Albania ha applicato coerentemente la dottrina marxista-leninista sullo Stato di dittatura del proletariato e sulla democrazia socialista, sul ruolo guida ed esclusivo del partito della classe operaia e sulla necessità della lotta di classe. La nostra realtà storica conferma nel modo più convincente che quando vengono applicate le leggi generali del marxismo-leninismo, tenendo conto delle peculiarità del paese, la rivoluzione trionfa e il processo di edificazione della società socialista è irrefrenabile. L’esempio dell’Albania confuta tutte le “teorie” dei filosofi capitalisti e revisionisti contro la dittatura del proletariato, contro il ruolo guida dei Partito e lo sviluppo della lotta di classe.

Le nostre grandi vittorie sul fronte dell’edificazione socialista sono dovuti innanzi tutto alla nostra fedeltà al marxismo-leninismo. Se abbiamo sempre vinto sui nostri nemici, ciò è avvenuto proprio perché siamo stati fedeli ai principi, siamo stati onesti e coraggiosi rivoluzionari.

Per il fatto stesso che la pratica dell’edificazione socialista in Albania ha materializzato la teoria marxista-leninista, il nostro paese è divenuto bersaglio degli attacchi dei nemici di questa teoria che hanno puntato su di essa tutte le loro batterie.

Noi ci batteremmo coraggiosamente contro gli oppositori della nostra ideologia, poiché, quando si tratta di difendere i principi marxisti-leninisti, non possiamo entrare in trattative e compromessi di trafficoni, come i capitalisti e i revisionisti cercano di imporci.

La lotta tra i marxisti-leninisti e i traditori dell’ideologia del proletariato continua e continuerà fino a quando il revisionismo, che nasce e si sviluppa come agente della borghesia e dell’imperialismo, non sarà completamente liquidato nel mondo. E’ nostro dovere, in quanto marxisti-leninisti, difendere la concezione del mondo rivoluzionario della classe operaia. Nelle attuali condizioni, in cui al vecchio revisionismo è venuto ad aggiungersi anche il revisionismo cinese, questo dovere è divenuto ancora più impellente.

Per poter adempiere con successo a questo compito è necessario conoscere, analizzare e denunciare le teorie e le pratiche antimarxiste e controrivoluzionarie dei nemici, i quali, sotto la parola d’ordine dello “sviluppo creativo del marxismo” e della “lotta contro il dogmatismo”, attaccano, innanzi tutto, la dottrina marxista sulla dittatura del proletariato e il suo partito di tipo nuovo.

La società socialista si rafforza nella lotta contro i suoi nemici. Perciò noi, comunisti, dobbiamo essere nelle prime file di questa lotta fino al conseguimento della vittoria. Noi siamo rivoluzionari e difendiamo l’ordinamento economico-sociale socialista, che è un sistema nuovo, il più progredito del mondo, mentre i revisionisti sono reazionari perché si’ piegano e capitolano davanti al vecchio sistema borghese. Il futuro si presenta fosco per i nostri avversari e radioso per noi. Ma il futuro non si realizza da sé, deve essere preparato costantemente ed accuratamente, con la lotta nei campi politico, ideologico, economico, della difesa ecc.

Il libro di Kardelj, come molti altri che la borghesia e il revisionismo internazionale hanno pubblicato per propagandare le loro idee reazionarie, antimarxiste e antileniniste, va smascherato affinché i comunisti, gli operai e gli uomini progressisti che non conoscono la realtà revisionista oppure la conoscono da lontano, non si lascino trarre in inganno dalle parole d’ordine “di sinistra”. Per rafforzare la nostra vigilanza, per essere all’altezza della missione affidataci come comunisti, dobbiamo tenere presente sempre la grande constatazione di Lenin secondo cui

“Gli uomini… in politica saranno sempre ingenue vittime dell’imbroglio degli altri e di loro stessi, finché non avranno imparato a discernere gli interessi di queste o quelle classi dietro le frasi, le dichiarazioni e le varie promesse morali, religiose, politiche e socíali” (V. I. Lenin, Opere, vol. 19, p. 9).

TAVOLA DELLE MATERIE

Un rapido sguardo storico sulla via dei revisionisti titoisti
Il sistema di “autogestione, nell’economia”
L’”autogestione ” e le concezioni anarchiche, sullo Stato, la questione nazionale in Jugoslavia
Il sistema di “autogestione” e la negazione del ruolo guida del Partito
Il pluralismo politico-ideologico, la “democrazia” e l’edificazione socialista” in Jugoslavia